Diplomazia liquida

Che l’acqua rappresenti il petrolio del 3° millennio non è una novità.
In un’epoca in cui la crescita demografica, i mutamenti climatici, l’inquinamento e una gestione spesso dissennata delle risorse idriche ne hanno fatto un bene sempre più raro, non sorprende infatti che proprio il controllo dell’oro blu costituisca la scintilla all’origine di tanti conflitti armati (circa 40 solo negli ultimi cinquant’anni).
Nei colori caldi i paesi in cui l’accesso all’acqua potabile non è garantito al 100%
Mentre 750 milioni di persone al mondo continuano a soffrire la sete, è sconcertante sapere che nell’ultimo mezzo secolo sono stati siglati più di 200 trattati sulla gestione transfrontaliera delle risorse idriche. In altre parole, se è vero che sul controllo dell’acqua si litiga, in molti casi fiumi e laghi condivisi rappresentano occasioni preziose per cooperare con i propri vicini. Occasioni che decisamente non mancherebbero, visto che nel mondo i Paesi che hanno un bacino fluviale condiviso con i vicini sono 148.
In un contesto in cui i fiumi e i sistemi di falda transfrontalieri rappresentano quasi la metà della superficie terrestre, la cooperazione sull’acqua è vitale per la pace e può ridurre il rischio di calamità quali siccità o inondazioni. Non a caso, l’Assemblea general delle Nazioni Unite, che nel 2010 aveva definito con una storica risoluzione “diritto umano” l’accesso all’acqua, l’anno scorso ha messo al centro dell’attenzione proprio la cooperazione idrica.
Obiettivo: rilanciare l’importanza dell’idrodiplomazia come unica via per far fronte alla minaccia di una scarsità crescente.
Purtroppo però, tra le dichiarazioni d’intento e un’azione concreta, il passo è spesso lungo.
Basti pensare al Nilo, il grande fiume che scorre per 6.700 km attraverso 10 Paesi.
E se, in seguito ai trattati di epoca coloniale, l’Egitto conserva ancora il diritto esclusivo a sfruttare oltre il 66% delle sue acque, gli altri Paesi del bacino, nel quale vivono 238 milioni di persone, hanno rivendicato una nuova contrattazione che va avanti dal 1999.
Il Medio Oriente rappresenta invece la regione tradizionalmente più calda per quelle che vengono definite le “guerre d’acqua”.
Oggi, la grande sete è infatti uno dei fronti del conflitto israelo-palestinese, poiché lo Stato ebraico sorge in una zona semi-arida in cui la crescita esponenziale della popolazione ha messo a dura prova le limitate fonti d’approvvigionamento.
La Chiesa ha spesso rimarcato il principio dell’acqua come diritto umano fondamentale non mercificabile, bene necessario alla vita e alla salute: l’ha fatto tanto nella riflessione teorica e nel Magistero quanto nell’azione pastorale.
I missionari, da un capo all’altro del mondo, sono spesso protagonisti di questo impegno.
Perché il principio del bene comune nella gestione dell’oro blu prevalga anche nell’azione politica, tuttavia, resta fondamentale consolidare un quadro istituzionale globale. Se si pensa che, ad oggi, il 60% dei 276 bacini fluviali internazionali manca di qualunque forma di gestione cooperativa, è evidente che la strada è ancora lunga. Di tanto in tanto, tuttavia, emergono segnali di speranza. Ad Agosto, per esempio, entra in vigore la Convenzione Onu per la gestione e la tutela dei corsi d’acqua internazionali, che era in stand by dal 1997. Ciò dimostra che la pace dell’acqua si può costruire, una goccia alla volta.
Articolo tratto da “Mondo Missione”