Solo per amore. Con tutto l’amore! [seconda parte]

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Betlemme, 16 agosto – 1 settembre 2013 [seconda parte]

Samar. Avrà almeno 30 anni, ma è costretta su una carrozzella. Non riesce a tenere fermo il collo, a muoversi, a parlare. Chissà quanto capisce… Soffre di bruxismo, e quando si agita digrigna i denti forte forte, piange e nel piangere emette dei suoni stridenti. Mi faceva pena, non sapevo come comportarmi con lei, mi sentivo totalmente impotente e anche un po’ spaventata. Poi un giorno mi hanno chiesto di cambiarla. Non era “facile” e perché no, anche divertente, come cambiare i piccoli. Per di più, mentre cercavo di cambiarle i pannolini, urlava, e io non sapevo se le facevo male, se ero io con i miei movimenti a infastidirla… L’ho cambiata e poi sono subito uscita dalla sua stanza perché mi sentivo a disagio. Una cosa era cambiare un bambino, un’altra cambiare un adulto. E’ una sensazione strana, ancora faccio fatica ad afferrarla, ma mi vergogno di non aver avuto la forza di starle più accanto.

Anche con Yahia ho familiarizzato praticamente gli ultimi due giorni, in piscina. Yahia è un bimbo molto autistico: apparentemente è tranquillo, solitario. Gioca da solo, ma tutte le sue azioni sono molto ripetitive: sale e scende dalle scalette di gomma, si siede e si dondola avanti e indietro.. spesso ha lo sguardo fisso nel nulla. Stefano dice che è un po’ come un gatto, e ha ragione: viene, prende le coccole, come e quanto vuole,e poi si allontana. Poi d’improvviso inizia a urlare, si butta a terra, piange e graffia. Molti altri bambini della Hogar portano in volto i segni delle unghiate di Yahia, hihi! Ha paura dell’acqua, tanto che in piscina rimaneva sempre seduto sugli scalini, giocando da solo con una pallina. Devo confessare che dopo che il primo giorno mi ero presa una delle sue mitiche unghiate, ero un po’ restia ad avvicinarmi a lui per paura che risuccedesse. Però quel pomeriggio, nel vederlo così isolato in piscina, mi sono riavvicinata.  All’inizio non sapevo bene come fare a farlo entrare in acqua, e ogni volta che provavo a fare un tentativo, urlava e scappava. Allora mi sono seduta vicino a lui e abbiamo iniziato a giocare con una pallina. Pian piano deve avere iniziato a fidarsi di me  e sono riuscita a portarlo in acqua, prima tenendolo in braccio, poi mettendolo a dorso e sorreggendogli sempre la schiena e la testa, poi facendolo appoggiare a una palla galleggiante e alla tavoletta. Alla fine sembrava a suo agio, e per me è stata una bella conquista! Mi manca vederlo salterellare qui e lì per la casa! Mi manca sentire che in piscina si aggrappava a me per paura dell’acqua, perché quell’aggrapparsi significava che si stava fidando di me.

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Diversa è stata invece l’esperienza con le anziane: se i bambini erano un’esplosione di vitalità, negli occhi delle nonnine si poteva leggere la stanchezza di una vita. Alle volte parevano assopite, dimenticate dal mondo e da loro stesse. Non parlavano molto tra di loro; in genere quando arrivavamo c’era silenzio totale. Chi dormicchiava, chi stava lì, con lo sguardo fisso nel nulla. Una sensazione di grande desolazione, di abbandono, di dimenticanza, di tristezza. Dai loro racconti, a tutte mancava la propria famiglia, la propria casa. Alcune avevano perso il marito nella guerra, altre erano state abbandonate dai figli, alcune non avevano più nessuno al mondo.

Arrivavamo e c’era il momento dei saluti. Alcune nonnine ti fermavano, ed avevano tanta voglia di chiacchierare; altre, invece, sorridevano, ma sembravano restie a parlare. Forse la difficoltà della lingua, forse la timidezza, forse il peso di un dolore che gli stava schiacciando l’anima. Anche all’Antonianum, abbiamo vissuto un’esperienza fatta di volti, di storie, e non si può raccontare se non parlando di ognuna di loro, tutte bellissime.

Olga ha l’Alzheimer e qualunque cosa le dicessi/chiedessi, rispondeva sempre la stessa cosa: “Look, when I met Pino CHet he asked me: Who are you, who are you? I’m in Bilain! In Bilain?! Oh, you dance like this and this and this” E ancora: “Look, the Jews is not jolie! It’s not jolie to put the stone for the Jews!”. Poi, quando andavamo via, ogni giorno ti diceva “Merci à votre visite”, e ti salutava come se fosse l’ultima volta, anche se noi il giorno dopo tornavamo. Lo diceva con la malinconia negli occhi.

In realtà, ogni giorno, quando salutavamo prima di andarcene, tutte ripetevano questa stessa domanda: “Ma domani tornate?” E se le dicevamo di sì erano felici, se le dicevamo che magari il giorno successivo andavamo a Gerusalemme, si vedeva che gli scendeva una patina di tristezza sugli occhi. Forse perché quando arrivavamo, portavamo una ventata di allegria, un po’ di attenzione, le fasciavamo chiacchierare, magari ballare (non che fossero danze scatenate, ma era bello vederle muovere: era l’unico modo per farle alzare dalle sedie, la passeggiata proprio non volevano farla!). Non facevamo grandi attività alla Società Antoniana, il nostro modo di essere presenti per le nostre nonnine era molto semplice, cercavamo solo di tenerle un po’ di compagnia, sperando che nelle nostre piccolissime attenzioni loro si sentissero un po’ più amate e un po’ meno sole. Credo che in noi vedessero una delicatezza di cui tanto avevano bisogno, ma a cui ormai non erano più abituate.

Lidia. Dormiva tutto il giorno: si addormentava persino mentre stava in piedi, mentre mangiava. Ogni giorno a pranzo mi sedevo accanto a lei e la imboccavo. Non è che non avesse fame, mangiava come un lupo; è come se non avesse la forza di portarsi la forchetta alla bocca, come se dopo uno o due bocconi si stancasse. Lidia però era contenta quando la aiutavo a mangiare: mi chiamava “Habibti” (Amore mio). Le soffiavo il riso quando era troppo caldo, le sminuzzavo la carne quando i pezzi erano troppo grandi. Mi guardava, mi parlava (anche se non capivo quasi nulla di cosa tentava di dirmi) e non si addormentava nemmeno! Avevamo instaurato questo piccolo rituale in cui i nostri occhi sorridevano. Era un tempo tutto nostro, e devo dire che faceva bene a entrambe. Lidia era un’infermiera, conosceva bene l’inglese; poi l’ Alzheimer, che ha cancellato tutto il suo passato, tranne il ricordo di avere il fratello a Ramallah. Questo amore indelebile per le loro famiglia, nonostante la malattia, nonostante magari la famiglia le abbia abbandonate, è una costante di tutte le nonnine. Tutte ti raccontano dei ricordi dei loro figli, dei loro mariti, dei loro genitori. E anche se le hanno rigettate, continuano a proteggerli. Che tenerezza!

Neli, ad esempio. Era figlia di una famiglia molto ricca, il padre lavorava in America. Aveva un problema di rachitismo, che poi all’improvviso è peggiorato diventando molto grave. La madre è morta durante l’Intifada, il padre non è mai riuscito ad ottenere il permesso per portarla con lui negli Usa. Poi si è ammalato pure lui ed è morto. E Neli è rimasta sola al mondo, senza che nessuno si prendesse cura di lei, allettata. Desidererebbe tanto che le venissero curati i denti (Neli è ancora giovane, avrà una quarantina d’anni, ma è sdentata e le gengive si vede che sono malate), ma in Palestina non esiste un servizio sanitario pubblico e lei non ha i soldi per pagarsi le cure mediche. Non dimenticherò mai i suoi occhi. Scuri e profondi come una lago. Lucidi eppure sorridenti nonostante fosse allettata, nonostante fosse sola, nonostante tutto. Mi chiamava “my sister”, e io ho sentito nel cuore che lei era davvero mia sorella. E in quei suoi occhi, ci ho visto Dio. La prima volta che mi sono chinata sul suo letto, avevo paura di fissarla negli occhi, avevo paura di guardare in quel dolore, non lo so, quasi mi sembrava di profanare un luogo sacro. Invece poi in quegli occhi mi ci sono persa. Più li guardavo e meno me ne volevo staccare. In quegli occhi c’era Dio. Ne sono sicura. E mi parlava, mi trasmetteva amore. In quegli occhi sentivo di non aver bisogno di altro, che la felicità per me era stringere la mano di Neli e sorriderle, semplicemente. Null’altro. Ero a casa. E mi sono ripromessa che anche una volta tornata in Italia mi sarei presa cura di lei. E voglio mantenere la promessa.

Poi c’era Helwa. Aveva perso il marito giovanissima, ucciso dall’IDF a Gerico: lui era comandante delle truppe palestinesi. Veniva da una famiglia benestante, e aveva pagato gli studi a tutti i nipoti, non avendo dei figli suoi. Ma il fratello l’ha lasciata alla Società Antoniana, e lei ne ha sofferto da morire: ha invitato me e Stefano a trasferirci a casa sua, e ci ha pregati di tenerla con noi. Le piaceva molto parlare con Stefano, “Stiv” lo chiamava!

Noa invece è cieca da 20 anni. “I see black, I’m afraid” ripeteva ogni giorno. Deve essere una cosa orrenda non vederci più all’improvviso. Nonostante fossero molti anni che stava alla Società Antoniana, non aveva preso confidenza con il luogo, non sapeva muovercisi autonomamente, nemmeno per raggiungere il bagno. Ce la accompagnavo io. Sembrava terrorizzata da ogni cosa: alle 10 cominciava a chiedermi di portarla alla toilette, ma non subito, alle 11.15, prima del pranzo. E quella per lei era un’ansia, anche una cosa così semplice, così scontata, diventava per lei un pensiero al buio. Non aveva molte amiche, e si sentiva sicura solo quando aveva al suo fianco Olga: le teneva la mano quasi tutto il giorno, come si fa con un bambino. Le piaceva stringere anche la mia mano, e a  me piaceva stringere la sua. Mi chiedeva spesso le stesse cose: se ero sposata, se avevo i genitori, se vivevo vicino a loro, se avevo figli. E quando le dicevo di no, mi rispondeva: “I will pray for you”. E io sapevo che l’avrebbe fatto. La ammiravo, perché nonostante stesse così male, pensava e pregava per me, mi voleva bene, semplicemente perché la mattina le stringevo per qualche minuto la mano e ci scambiavamo quattro chiacchiere. E questa è una delle più grandi dimostrazioni di amore disinteressato che io abbia mai ricevuto. Il penultimo giorno mi ha appoggiato le mani sulla testa e mi ha benedetto. Non ho ben capito le parole pronunciate in palestinese, ma quella benedizione l’ho sentita scendere nel mio cuore e credo di essermi commossa. Signore, che meraviglie compi attraverso i più umili, i più deboli! Che lezione di umiltà e di semplicità mi hanno dato! Quanto mi hanno insegnato, quanto amore mi hanno dato! Con il loro amore saggio e vissuto, maturato in una vita, hanno guarito le mie ferite; mi hanno fatto sentire importante per loro, voluta, scelta, ed è sparito in me quel senso di frustrazione, di invidia, di incapacità che mi stava divorando prima della partenza. Mi sono sentita sorella, mi sono sentita una creatura meravigliosa e privilegiata per aver potuto servire quelle anziane!

Mona invece aveva una cinquantina d’anni, ma era affetta da un Alzheimer precoce. Le piaceva studiare le lingue; aveva un quaderno su cui si annotava tutte le parole che sentiva in inglese e italiano! Era avida di conoscenze, ti cercava a ogni angolo perché le insegnassi una nuova parola. Ogni giorno, prima che ce ne andassimo, ci rincorreva: “Just one more word!” Era soprattutto Stefano che si divertiva e si cimentava a insegnarle l’italiano. Ha anche cercato di spiegarle come si coniugano i verbi J!

Purtroppo Mona non andava d’accordo con Nadia e Ranya, due sorelle, anche loro sulla quarantina, la prima con un tumore al cervello (è stata operata ma temono che si possa ripresentare). Spesso litigavano, Ranya accusava Mona di essere matta, e lei non ci vedeva più, magari le dava degli schiaffetti, così doveva intervenire suor Paola a separarle. Eppure, io sono convinta che anche Ranya dietro quella rabbia, quel voler sempre fare stare zitte tutte, ed essere un po’ comandina (la chiamavano “the director of nothing”) nascondeva solo una grande fragilità, un bisogno di attenzione. Penso che vivere all’Antoniano, avere perso i genitori e vedere la sorella in quelle condizioni, essere ancora giovane ma non potersi costruire una famiglia, sia quanto di peggio possa accadere. A volte si può pensare che sia “cattiva”, ma non si considera che vive in cattività, e che forse è meglio che si sfoghi con qualche litigata piuttosto che rimanga muta, seduta su una poltrona senza muoversi e parlare, a guardare tutta la vita che scorre davanti ai suoi occhi fissi nel nulla.

E lo capisco solo ora, ripensando alle altre anziane, che passavano la maggior parte del tempo sulla stessa sedia come morte, senza vita, forse addirittura senza più voglia di vivere. Alcune lo dicevano proprio, come Mary, che sperava che il buon Dio se la riprendesse “perché ormai era stanca”. E la stessa stanchezza di vivere si avvertiva in quasi tutte. Mi chiedo spesso, ripensandoci: ”È questo l’effetto che fa il dolore?

Tra i volti così cari, c’era pure quello di Madlaine. Ha il Parkinson; la mattina, quando arrivavo, iniziavamo a fare insieme l’elenco dei cibi italiani e palestinesi che più le piacevano! Gli ultimi giorni diceva sempre alle altre: “Adesso prendo l’aereo e torno con loro in Italia: bye bye Palestina!” Anche lei mi chiamava “Habibati”, e l’ultimo giorno le è scesa una lacrimuccia. Lei e Mary erano le due anziane più dolci, a cui forse più mi sono affezionata, che più mi ricordavano le mie nonne.

Mary era la più arzilla di tutte, 102 anni, occhioni azzurri, profondi. Dentro gli si leggeva il sapore di un’intera vita vissuta. Lei amava tantissimo la Madonna, a lei si affidava in ogni momento della giornata. La pregava intensamente, e lei la ascoltava. Mi ha raccontato che molte donne che non riuscivano ad avere figli hanno chiesto le sue preghiere, e alla fine è sempre stata esaudita. Aveva un sistema: pregava intensamente il rosario per una settimana; poi la Vergine le rispondeva. Mi ha promesso che avrebbe pregato anche per me e Stefano. Dopo una settimana, una mattina, appena arrivata, mi ha chiamata e mi ha detto: “La Vergine mi ha detto di dirvi di stare tranquilli, vi donerà un figlio”. Io lo so. So che davvero la Madonna le ha parlato. Grazie Mary, con tutto il cuore. Se avremo una bimba, la chiameremo Maria.

C’era così tanta vita in Mary, così tanta esperienza. Aveva il dono di parlare un linguaggio sublime anche con i suoi silenzi. Sarei rimasta per ore anche in silenzio accanto a lei e mi sarei arricchita più che con un anno di lavoro. L’ultimo giorno mi ha fatto piangere come una fontana. “Allora oggi è l’ultimo giorno?” “… Purtroppo sì”. Silenzio pieno di tutto. Qualche lacrima riga il volto di Mary. Si nasconde gli occhi umidi con la mano. Quanto era delicata. Lei era veramente una bellissima margherita! Poi mi ha guardata e mi ha detto: “Pourquoi vous etes venus?” Quella domanda forse è il punto da cui ripartire adesso. Mi ha regalato un rosario, e intendo pregarlo spesso. Promesso.

Poi c’era Linda. Vederla mi straziava il cuore. Cinquant’ anni, Alzheimer. Se la salutavi, se provavi a toccarla, spesso non reagiva. Bianca in viso. Capiva Linda? Non capiva? Difficile a dirsi. Anche se non capiva, sicuramente sentiva quello che le stava accadendo, ne sono sicura. Si vedeva dai suoi occhi, quelli parlavano più di qualunque parola. Chissà cosa pensava. Un tempo era a capo di una sartoria, e qualcosa del suo lavoro deve essere rimasto dentro di lei, perché ogni volta che ti avvicinavi, ti prendeva la gonna, il saio o quello che le capitava e faceva finta di cucirli, di fare l’orlo… Mary diceva spesso “Ho pietà di lei”, credo che sia esattamente la stessa sensazione che provavo io. Nella sua condizione c’era la nudità della croce. Davanti alla situazione di Linda mi sentivo tanto piccola, tanto fragile. Tanto inadeguata. Tanto impotente. A volte le stringevo la mano, ma sapevo che non era lei ad aver bisogno che gliela stringessi, ero io ad averne bisogno. Toccare la sua mano era come toccare Gesù. Avrei avuto voglia di inginocchiarmi e pregare tenendole stretta la mano, ma non l’ho mai fatto, perché stava in corridoio, in mezzo a tutti, sarebbe stato come spettacolarizzare un momento troppo intimo e privato.

Ma questi sono solo alcuni dei volti che  ci sono venuti in contro nei nostri diciassette giorni a Betlemme, accogliendoci come fratelli e facendoci sentir a casa. Fra Pierpaolo, le suore della Hogar e della Società Antoniana, i frati della Custodia, le sorelle dell’Aida Camp (uno dei campi rifugiati più grandi di tutta la Palestina), ma anche le persone di Betlemme… se ripenso a loro penso di poter solo ringraziare: sono stati un dono incredibile.

Dio toglie e poi ridà, dicevo all’inizio. Davvero se ti affidi al suo Amore, compie in te cose meravigliose. Bisogna svuotarsi completamente per poter accogliere il Signore, per permettergli di ricolmarci con la sua grazia. È questa la certezza con cui sono tornata a Roma al termine della nostra esperienza in terra di missione. Ed è una consapevolezza che mi fa sentire serena come non lo ero da tempo, fiduciosa nel futuro e affidata, protetta dall’abbraccio del Signore. Prima di partire pregavo per avere la capacità di rifugiarmi tra le ferite del costato di Cristo, se mi fossi imbattuta in una situazione dolorosa. Oggi posso dire che il Signore mi ha esaudito, ha risposto con potenza.

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È passato ormai un mese da quando siamo tornati, e le emozioni piano piano iniziano a sedimentarsi. Credo che stia iniziando un periodo di discernimento, perché sia io che Stefano sentiamo che non è un’esperienza che finisce qui, che il Signore ci sta parlando, ci sta chiedendo qualcosa. Dobbiamo solo capire cosa. Il viaggio non è finito, continua, anzi, è appena iniziato.

Vorrei condividere ancora alcune riflessioni. Una persona davvero speciale che abbiamo conosciuto a Betlemme un giorno ci ha detto: “Not human rights, but divine rights”. Credo che sia questo il motivo per cui si parte per la missione. Si parla sempre di diritti umani, ma dove sono i diritti di Dio? Quando si parte per la missione, si parte in qualche modo per affermare quei diritti di Dio, che sono così diversi da quelli della legge… il diritto di Dio di essere amato, di vedere la sua Parola diventare viva, essere ascoltata e poi messa in pratica… solo difendendo i diritti di Dio, si possono davvero proteggere e custodire i diritti degli uomini e renderli liberi. E questo è particolarmente vero in Palestina, dove ebrei, musulmani e cristiani continuano a odiarsi e distruggersi. Si parla spesso del conflitto israelo-palestinese; spesso io per prima ho preso posizione, l’ho giudicato, ho pensato di sapere cosa fosse “giusto”. In questo viaggio, ho capito che viverlo è un’altra cosa, che anche per parlarne ci vuole umiltà, perché prima bisogna sempre provare a guardare dalla parte di chi ne viene coinvolto, passando il confine. Ho scoperto che il vero confine non è il muro che divide Israele e Palestina; ho scoperto che il vero confine da attraversare è imparare a fare propria l’esperienza dell’altro, rispettandola. È nella nostra mente, nella mente di chi abita quella terra il vero confine invalicabile, e solo l’Amore di Dio, solo il Perdono può abbatterlo e rendere libera quella terra e quei Figli.

Infine, ringrazio il Signore per avermi permesso di partire con Stefano, perché è stata un’esperienza che ha rafforzato il nostro amore. L’amore cambia, cresce, diventa sempre più forte. In questa missione ci sono stati tanti momenti in cui ho guardato Stefano giocare con i bimbi e mi sono riinnamorata di lui come se fosse la prima volta, scoprendo nuove sfumature del nostro amore. Non è passato un solo momento senza che avessi la chiara percezione di essere una cosa sola con lui in Cristo. La sera, tornando a casa, sapevo di avere una persona accanto che già aveva capito quello che stavo provando, senza bisogno di parole. Con la consapevolezza di non essere mai sola, di avere una spalla, una persona pronta a sostenermi, a incoraggiarmi, a riscegliermi. Il suo Amore è per me il segno tangibile dell’Amore di Dio, perché solo Lui può guardarti mentre giochi con quei piccoli e amarti così, in quello stare lì, struccata, stanca, debole e fragile. Grazie, Stefano, perché mi fatto sentire bella anche mentre piangevo. Ho avuto almeno due o tre nuovi colpi di fulmine per mio marito in missione, gli ho detto un altro milione di volte il mio “Sì”.

Rammarici? Avremmo potuto fare di più, rimanere di più. Ma quegli amici sono non sono i nostri bambini, non sono i nostri anziani, sono i bambini e gli anziani del Signore. Ci ha fatto il dono di servirli per un po’, non dobbiamo renderli un nostro possesso.

Siamo tornati colmi. Reggendo tra le braccia le ossicine di Ibah, stringendo la mano di Linda, ho abbracciato Gesù, non ho dubbi. È una certezza. Nei loro occhi ho incontrato i miei occhi, mi ci sono vista riflessa. E sono stata guarita. Attraversando il dolore, sono stata guarita. In quel passaggio, ho scoperto la gioia della croce.

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