Lettera di aprile dal Congo

“E. è diventato pazzo, E. è diventato pazzo”. Qualche giorno in Italia per questioni legate alla nostra entità di frati in Congo e alcuni ragazzi mi fanno arrivare questo messaggio. “E. è diventato pazzo al punto che lo hanno portato al manicomio, ma poi è riuscito a scappare anche da lì. Ha spaccato delle auto, ha rotto la testa ad un tipo con una bottiglia, poi lo hanno preso e pestato… adesso non ha un posto fisso dove stare e vive come un cane”.

centro congoConosco E. da tanto tempo, è un ragazzo di 19 anni ed è stato spesso con noi. Il fatto stesso di dire che è stato spesso con noi, mostra già l’altra faccia della questione: spesso non lo è stato.
Infatti è uno di quei ragazzi che non riescono a stare a lungo nel centro, ma che dopo un po’ sentono la “nostalgia” della strada e di quel libertinaggio che alla loro età li fa sentire nella capacità di poter fare tutto ciò che vogliono. Anche ciò che gli fa male.

Ultimamente lo avevo incontrato, al solito mal messo come un figliol prodigo di ritorno, e mi aveva chiesto di poter imparare il mestiere di meccanico. Ha cominciato così a frequentare l’officina del nostro meccanico di fiducia e all’inizio andava bene. Ha anche imparato discretamente il mestiere. Ma la mediocrità è sempre in agguato. Quella mediocrità che nel momento in cui hai imparato “qualcosa” ti fa credere di sapere già tutto mentre in realtà non sai che una mezza parte (giustamente medium, dunque mediocre, chi fa le cose a metà). E allora ha cominciato a non frequentare più il suo maestro ma a cercare di lavorare in proprio facendo dei piccoli lavori (“cop”, come si dice qui) per guadagnare di più. Poi allontanandosi sempre più dal suo maestro, comincia a frequentare compagnie strane (nel suo caso, ragazzi che fanno commedie e ballo da strada) facendo uso di droghe. E il fatto è compiuto. Mi hanno detto che un giorno i poliziotti lo hanno legato come un salame e portato a casa delle suore. Ma poi si è liberato ed è andato via da lì gridando frasi sconnesse e senza senso.

Tante volte lo avevo incoraggiato a fare attenzione alle “amicizie” di strada (quale genitore non lo fa con i propri figli?), che non siano una scappatoia alle responsabilità di un lavoro che a volte non dà soddisfazioni immediate. E lì non serve a niente il proverbio che cantano anche i ragazzi da queste parti: “se non hai niente da fare, fallo bene”, perché non funziona. Quando non hai niente da fare non puoi farlo bene, perché l’ozio è il padre dei vizi e prima o poi ti conduce fuori strada.

Allora a un ragazzo che mi ha mandato il messaggio dicendomi: “E. è diventato pazzo”, io ho risposto, “è colpa sua, quelle amicizie che lui ha voluto scegliere lo hanno condotto a questa situazione”… e il ragazzo dall’altra parte mi rimanda un messaggio dicendo: “si, ma è sempre tuo figlio”.

Di ritorno in Congo ho cercato di avere sue notizie senza farmi troppo notare. Pensavo a come potesse stare, alle conseguenze di quelle droghe che ne hanno fatto il pazzo del villaggio, a quante umiliazioni e bastonate ha dovuto ricevere dai poliziotti, a come scappando qua e la ha dovuto cercare ripari di fortuna mangiando ciò che poteva, quando poteva, e nascondendosi come un randagio rabbioso cacciato da tutti.

Poi stamattina qualcuno mi dice: E. è fuori, chiede di te. Me lo vedo di fronte, vicino casa. Sporco, vestito di stracci, ferito, ma sano. Mi dice che vuole parlarmi. Ci sediamo e parliamo, mi da le sue ragioni, comincia a dare la colpa di ciò che è accaduto agli altri. Lo ascolto, ma poi, di fronte alle mie obiezioni, alla fine acconsente. Assume la colpa di ciò che gli è successo. Mentre lo ascoltavo ringraziavo il Signore per avergli ridato la luce dell’intelligenza. Poi l’ho fatto lavare, ho cercato nel solito armadio qualcosa che potesse andargli bene, ha mangiato qualcosa e lo abbiamo curato (aveva delle piccole ferite ai piedi e altre ferite che erano già in via di guarigione. Sulla testa, i segni di colpi presi chissà dove).

Lo aspetto domani: insieme agli altri ragazzi del centro e agli educatori stiamo cercando di trovare per lui una soluzione temporanea, ma per ora la cosa più importante è che sia ritornato in sé. Almeno spero: qualcuno dei nostri mi dice che ha degli alti e bassi, ma non è normale… vedremo, io spero. Gli ho parlato ancora, facendolo riflettere sulla grazia che il Signore gli ha accordato: tanti, in seguito a queste droghe, si ritrovano a vivere per sempre (finché vivono) come degli zombie, vestiti di stracci, per le strade della città… e questa città ne è piena. Lui invece ha avuto la grazia di poter ritornare in sé, allora gli ho chiesto di non fare la cretinata di provarci ancora. Questa volta ti stiamo aiutando, ma cerca adesso di seguire quello che ti proponiamo. Ascoltare chi è in strada come te, non sempre è una cosa saggia. Staremo a vedere.

Ecco, credo che oggi il Signore mi abbia dato un messaggio di Pasqua. Una risurrezione, segno di quella risurrezione finale a cui ci chiama tutti. Come le risurrezioni (guarigioni) che Gesù operava come segno della dignità a cui siamo chiamati (“fatti non foste per viver come bruti”, ricordava Dante”) perché non sopportava di vedere l’opera di Dio ridotta all’opera delle nostre mani. Una risurrezione dalla bestialità a cui ci riduce il peccato. Ma che ci chiama a responsabilità finché siamo ancora in questa terra.

Come avvenne per quel cieco al tempio: “Più tardi Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco che sei guarito. Non peccare più, perché non ti avvenga di peggio” (Gv 5,14).

A mio avviso è lì la Parola del Signore, non tanto nello scritto quanto nel vederla di fronte agli occhi ogni giorno. Quello che avviene al cieco, o a E. è una Parola indirizzata a chi vuole leggerla nel libro della vita. Ma ci vuole umiltà, perché spesso, il male che gli altri fanno, facilmente lo chiamo vizio, peccato, ma quello che faccio io lo chiamo semplicemente abitudine, debolezza, o con una categoria teologica (densa di ambiguità) posso chiamarlo addirittura povertà! È facile giudicare gli altri. È facile giustificare il proprio comportamento. Ma il rischio mediocrità e bestialità conseguente è in agguato.

Il Signore ha cura di noi e ci dà un’altra possibilità. Ma – come dice lo stesso Signore – : “non tentare il Signore tuo Dio” (Mt 4,7). Il male della bestialità, è che quando ci arrivi, non te ne rendi neanche conto.

A tutti Buona Pasqua che sia una risurrezione per la responsabilità di vivere da figli di Dio.

fra Adolfo