Ciò che prima gli riusciva amaro gli si trasformò in dolcezza. La testimonianza di Cinzia

“Non si parte pensando di salvare il mondo: in missione si riceve molto più di quello che si dà”. Mi ero appuntata sul quaderno questa frase che ci avevano lasciato i frati durante il corso “Giovani e Missione” e pensavo di averla capita. Era un invito ad essere umili, perché nessuno si sentisse buono e speciale per quello che aveva deciso di fare. Avevo imparato la teoria, ma ancora non sapevo in che modo quella frase avrebbe attraversato la mia vita.
Così il 31 agosto 2019 ho iniziato il servizio a Betlemme in un asilo e nel centro anziani della Società Antoniana, un progetto locale supportato dall’ATS pro Terra Sancta. La prima settimana ha messo in discussione ogni cosa. C’erano bambini da prendere in braccio, da consolare, da cambiare, a cui dare la pappa e con cui giocare. Poi c’erano gli anziani che non potevano muoversi che avevano bisogno di essere imboccati e asciugati. Pochi parlavano inglese e io non parlavo arabo. Qualche giorno dopo ho conosciuto anche la realtà dell’Hogar Niño Dios, che accoglie bambini con disabilità di vario tipo. Mi chiedevo: ma io cosa ci faccio qui? Non so fare tutte queste cose, non le ho mai fatte in vita mia. I dubbi e le resistenze sono stati abbattuti a poco a poco, in un crescendo di gioia e di amore. Mi sono sentita come San Francesco quando incontra i diversi, gli esclusi: “Ciò che prima gli riusciva amaro, vedere e toccare dei lebbrosi, gli si trasformò veramente in dolcezza”.
Solo alla fine del mese in Terrasanta ho capito fino a che punto ho vissuto quella frase scritta sul quaderno. Me ne sono accorta al momento dei saluti. Precipitosi, fatti di poche parole, abbracci veloci e baci dati al vento per paura di perdere l’aereo. In quel momento ho rivisto come in un film tutto quello che mi stavo portando via, tutto quello che avevo ricevuto durante il mese in Terrasanta.C’era l’abbraccio di Rahme, la donna a cui davo la cena ogni sera, che al momento dei saluti sembrava aver capito tutto anche se non mi aveva mai detto una parola. Ogni sera, quando la imboccavo, mi fissava con uno sguardo penetrante che mi interrogava. Chissà cosa voleva dirmi. Le nostre comunicazioni erano fatte solo di “Hàlas” (basta), Habibti (amica, amore) e Shuey shuey (piano piano). Ogni tanto le parlavo anche in italiano, e lei continuava a fissarmi senza dire niente. Solo qualche volta si corrucciava e diceva: “Hàlas” perché non voleva più mangiare. Una volta sola l’ho fatta ridere e non la smetteva più. Poi c’era il sorriso dolce di Norma, che mi parlava in arabo con una bella luce negli occhi e io cercavo di rispondere con le parole che avevo imparato. “Shukran iktir” (grazie mille), mi ha detto lei prima di andare via. Abudi invece era molto più giovane ma non poteva camminare bene e bisognava tenerle i polsi per farle fare qualche passo in corridoio. Le ho insegnato l’equivalente di “Yalla Yalla” (andiamo) in sardo perché la divertiva, così appena mi vedeva comparire urlava “Ajò” e rideva. Poi c’era Ivonne che amava fermarsi a parlare in giardino con me mentre fumava una sigaretta, e c’erano anche le parole non dette di Teresa, un’altra ospite del centro, che sono rimaste sospese nell’aria al momento dei saluti per il poco tempo a disposizione. Me le sono portate via insieme alla croce che mi ha impresso sulla fronte Maria, con cui ho cantato La Vie En Rose e fatto lunghi discorsi in italiano. Mi sono portata via anche il sorriso e l’energia di Mirna, e mille altre cose che mi si sono impresse nel cuore. Non dimenticherò mai il sorriso disarmante di Ivan, gli occhi puri della piccola Salma, quelli tristi di Eli che voleva sempre la mamma e quelli birichini di Lulu, Mimi, Angela e Fuad. L’ultima immagine che ho nella mente è quella dell’impassibile Yussef che – dopo tanti miei tentativi di avvicinamento – si è fermato sulla porta, ha sollevato la manina prima che andassi via e mi ha mandato un bacio.
Allora mi chiedo: davvero io ho dato qualcosa, o sono loro ad avermi dato tutto quello che avevano? Parto con questa domanda nel cuore, e saluto per l’ultima volta quella terra dove il Verbo si è fatto carne, quella terra che lui ha scelto per farsi carne anche nella mia vita.

Cinzia Maria

 

Emergenza Siria

pro AleppoDal 2011 la guerra civile causa alla popolazione sirianasofferenze indicibili. Sia le forze di sicurezza che i gruppi “ribelli” hanno condotto diverse operazioni su larga scala, sfociate in esecuzioni di massa, uccisioni, arresti, rapimenti e torture.

L’embargo internazionale impedisce l’esportazione, i prezzi dei prodotti venduti sul mercato nero sono schizzati alle stelle. Molte ditte hanno chiuso i battenti lasciando a casa milioni di lavoratori per i quali è impossibile trovare una nuova occupazione. Il turismo, fonte economica indispensabile al Paese, è ovviamente inesistente.

Questa situazione si ripercuote in maniera drammatica sulla vita quotidiana di tutti i siriani: moltissime famiglie hanno perso la casa; chi ce l’ha, a causa dei frequenti blackout nell’arco della giornata, soffre soprattutto per la carenza di energia (la benzina è stata razionata), la mancanza di cibo e acqua potabile, l’assenza di assistenza e forniture mediche. Si vive nella costante paura che cada un’altra bomba.

La presenza francescana in Siria: un aiuto indispensabile per molti siriani

IT mappa francescani siriaA differenza di molte organizzazioni umanitarie, i frati della Custodia non hanno mai lasciato il Paese e sono ancora saldamente presenti in varie zone della Siria come aLattakia, Damasco, Aleppo e in alcuni villaggi della valle Orontes (Knayeh, Yacoubieh, Jisser e Gidaideh); aiutano la popolazione locale senza distinzione di razza, appartenenza religiosa o nazionalità, con particolare attenzione a bambini e donne.

I frati della Custodia hanno creato quattro centri di accoglienza, che provvedono ai bisogni più immediati dei più poveri della popolazione: acquisto di cibo, indumenti e coperte. Si cerca anche di tamponare l’emergenza che deriva dall’assenza della sanità pubblica,dispensando medicine e provvedendo all’assistenza medica fondamentale, specialmente attraverso l’ospedale di Aleppo gestito dalla Custodia e i dispensari medici dei monasteri francescani.

 

Tratto dal sito di Pro Terra Sancta

Mons. Auza: “Urgente salvare anche una sola persona da persecuzioni e atrocità”

Tocca la Siria, il Libano, la Terra Santa, il discorso che mons. Bernardito Auza, osservatore permanente vaticano presso le Nazioni Unite, ha rivolto ieri al Palazzo di Vetro di New York. Intervenendo nel dibattito sulla situazione in Medio Oriente, il presule ha subito chiarito che “la Santa Sede è profondamente preoccupata per la totale mancanza di progressi nei negoziati tra Palestina e Israele”.
Un impasse che genera “frustrazione”, in quanto “Israele ha preoccupazioni reali e legittime per la sua sicurezza”. Tuttavia, ha sottolineato Auza, “a tale sicurezza non arriverà isolandosi dai suoi vicini”, ma “attraverso una pace negoziata con i palestinesi” e la “soluzione dei due Stati”. Soluzione, questa, che “ha il sostegno della Santa Sede”, la quale – afferma – “unisce la sua voce ancora una volta a tutti gli uomini di pace per chiedere negoziati seri e concreti che possano consentire di rilanciare il processo di pace”.
Sempre a nome della Santa Sede, il presule ribadisce l’incoraggiamento ai leader del Libano a risolvere la situazione di stallo che ha impedito l’elezione del presidente dal maggio 2014, “mettendo da parte piccoli interessi politici per la preservazione del bene più grande di un Libano unito”. “Questo vuoto istituzionale – ha rilevato – rende la nazione più vulnerabile e fragile di fronte alla situazione generale in Medio Oriente”. Pertanto “la comunità internazionale deve sostenere il Libano in ogni modo perché riacquisti la stabilità e la normalità istituzionale”, e anche “aiutare il Paese ad assistere l’enorme numero di rifugiati presenti sul suo territorio, che ha creato una situazione di rischio di infiltrazioni estremiste tra i rifugiati”.
Spostando lo sguardo al conflitto in Siria, che – dice – ha raggiunto “livelli di barbarie mozzafiato”, il delegato vaticano sottolinea che “la distruzione indiscriminata delle infrastrutture di base, come le strutture idriche ed elettriche, ospedali e scuole, peggiora la situazione dei civili ogni giorno che passa”. “La caduta di Idlib, a soli 37 km a sud ovest di Aleppo – prosegue – ha seminato il panico tra la popolazione di oltre un milione di persone ad Aleppo. Le minoranze etniche e religiose sono particolarmente angosciate”.
Anche in questo caso l’appello della Santa Sede si rivolge alla comunità internazionale, chiedendo “di prevenire l’enorme disastro umanitario che un assedio e una battaglia per Aleppo sicuramente provocherebbero”. “Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare l’ennesima grave violazione del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani fondamentali”, afferma mons. Auza.
Ribadisce quindi la forte condanna “di tutti gli attacchi e gli abusi su basi etniche, religiose, razziali e altri motivi” e ricorda “ancora una volta che la scomparsa delle minoranze etniche e religiose del Medio Oriente non solo sarebbe una tragedia religiosa, ma una perdita di un ricco patrimonio che ha così tanto contribuito alle società a cui appartengono”.
In conclusione, l’osservatore permanente rammenta che il mese scorso, a Ginevra, davanti al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, 65 Paesi hanno firmato una dichiarazione a sostegno dei diritti umani dei cristiani e di altre comunità, in particolare in Medio Oriente. “Tale affermazione – rileva – richiama l’attenzione sul fatto che l’instabilità e la guerra in Medio Oriente minaccia seriamente l’esistenza stessa di molte comunità religiose, specialmente dei cristiani”.
Occorre, dunque, che tutti gli Stati si uniscano insieme per “affrontare questa situazione allarmante”, anche perché “ogni intervento è ormai tardivo” per quanti hanno già perso la vita o sono già stati cacciati dalle loro case e dai loro paesi. “D’ora in poi – aggiunge il rappresentante pontificio – ogni azione tesa a salvare anche una sola persona da persecuzioni e da ogni forma di atrocità non è solo tempestiva ma urgente”. E, come ha detto Papa Francesco, per la comunità internazionale “non può mai essere un’opzione quella di restare a guardare in un silenzio complice” certi crimini.

Via ZENIT (news del 22/04/2015)

Twal: “nel Medio Oriente scosso da guerre, i cristiani siano segno di speranza”

Durante la messa di Pasqua nella basilica del Santo Sepolcro, il patriarca latino di Gerusalemme denuncia l’indifferenza della Comunità internazionale.

Gerusalemme (07 Aprile 2015 via Zenit.org) – Cristo, il Suo volto, la Sua Parola, la Sua Pace sono tra di noi, eppure ne abbiamo paura. Facciamo anche “fatica a trovarLo in questo mondo, come se niente ci potesse soddisfare, né i discorsi politici, né il mondo economico, e neppure a volte chi ci sta più vicino”. Lo ha detto monsignor Fouad Twal, patriarca latino di Gerusalemme, durante la messa di Pasqua, nella basilica del Santo Sepolcro.
Viviamo, ha osservato il Patriarca, la medesima paura provata dalle “donne al sepolcro”, dinnanzi al quale “passano ogni giorno migliaia di persone alla ricerca di Dio” e che “non contiene più il corpo del Crocifisso”.
Tuttavia, Dio “non è necessariamente là dove noi lo cerchiamo – ha proseguito Twal -. Non è in luoghi oscuri ed isolati: è di fianco a noi, in nostro fratello, nel nostro vicino”.
La Resurrezione ci esorta dunque all’annuncio e alla “conversione”, come avvenne per il “centurione romano ai piedi della Croce”. Si convertono anche i “discepoli riuniti nel Cenacolo e chiusi a chiave per paura”, diventati poi “testimoni felici di soffrire per Cristo”.
Nella Tomba di Cristo, dunque, seppelliamo “le nostre inclinazioni mondane, le nostre incoerenze, le nostre divisioni religiose, la nostra violenza, la nostra mancanza di Fede e le nostre paure”.
In particolare nel Medio Oriente “scosso dalle guerre e insanguinato dalla violenza”, i cristiani sono chiamati “ad essere segni di contraddizione, segni di speranza malgrado tutto”.
Il patriarca latino di Gerusalemme ha poi denunciato: “I politici e la Comunità internazionale si preoccupano molto poco della nostra libertà e della nostra sorte. Gli interessi personali schiacciano la buona volontà di chi cerca la pace e la giustizia”.
Ci sono tuttavia i “martiri contemporanei” che, assieme ai “rifugiati iracheni e siriani, che hanno perduto tutto a causa della loro fede”, continuano a testimoniare che “nostro Signore è vivo”.
Al tempo stesso, vi sono i pellegrini che “vengono in Terra Santa per cercare Cristo, tentando nel contempo di trovare o ritrovare le proprie radici” che affondano proprio “nel grembo della Chiesa Madre, sul Monte Golgota e in questa Tomba vuota”.
Per tutte le ragioni elencate, ha aggiunto Twal, la “responsabilità” dei cristiani è “grande” e, malgrado tutte le loro vicissitudini, essi devono continuare a mantenere salda la loro “speranza” e viva la loro “gioia”, per il Cristo vivente che “trionfa comunque sul male”.

TERRA SANTA – I Vescovi cattolici: ricostruire Gaza, sostenere le scuole, aiutare profughi e immigrati

Gerusalemme (Agenzia Fides del 12/03/2015) – Un appello urgente alla “ricostruzione di Gaza per aiutare le migliaia di famiglie rimaste senza casa dopo l’ultimo conflitto”, un richiamo alla centralità dell’opera educativa delle scuole cristiane, minacciate dai tagli delle sovvenzioni, e la richiesta di un rinnovato impegno delle realtà ecclesiali nel sostegno ai profughi iracheni e siriani e agli immigrati africani e asiatici. Sono questi i punti chiave discussi nell’ultimo incontro semestrale dei Vescovi ordinari cattolici di Terra Santa, tenutosi il 10 e 11 marzo presso il Convento francescano di Gerusalemme. La riunione ha visto la partecipazione dei Vescovi cattolici di Giordania, Palestina, Israele e Cipro. Tra i dossier toccati nelle sessioni ci sono stati anche quelli relativi al lavoro pastorale da compiere in vista della prossima canonizzazione delle due Beate palestinesi, suor Marie Alphonsine Ghattas e la carmelitana Mariam Bawardi, in programma a Roma il 17 maggio, e del prossimo Sinodo sulla famiglia ad ottobre.
Nel comunicato finale dell’assemblea, diffuso dal Patriarcato latino di Gerusalemme, si esprime preoccupazione per il futuro delle scuole cristiane in Israele, colpite dai “tagli alle sovvenzioni da parte del Ministero della Pubblica Istruzione”. Viene ipotizzata anche una maggiore partecipazione dei genitori al sostegno finanziario delle scuole, nella permanente convinzione “che lo scopo proprio delle nostre scuole non è il profitto, ma l’educazione”. Nel documento si ribadisce l’intenzione della Chiesa di farsi carico con sollecitudine “dei migranti asiatici e africani che vivono in una situazione precaria”, segnata dallo sfruttamento, dalla discriminazione e dalla mancata tutela dei diritti fondamentali.
Riguardo alla condizione dei rifugiati provenienti da Siria e Iraq, i Vescovi ribadiscono che la maggior parte di loro non sembrano coltivare alcuna speranza di un possibile ritorno nei rispettivi Paesi segnati da sanguinosi conflitti. Le risorse messe in campo dalla Caritas – avvertono i Vescovi – diminuiscono con il prolungarsi delle situazioni di crisi. E il progressivo deterioramento delle condizioni di vita di milioni di profughi e sfollati chiama in causa in maniera sempre più pressante le responsabilità della comunità internazionale e dell’Onu.

TERRASANTA – Gaza e i fondi promessi che non arrivano

A cinque mesi dai bombardamenti della scorsa estate, il paesaggio di Gaza è ancora caratterizzato da molti cumuli di macerie. E non potrebbe essere altrimenti. Infatti, solo il 5 per cento del denaro stanziato dalla comunità internazionale per ricostruire, è giunto a destinazione.

A comunicarlo è Irin, agenzia d’informazione indipendente specializzata su emergenze umanitarie internazionali. Alla Conferenza del Cairo, lo scorso ottobre, i leader di tutto il mondo promisero 5,4 miliardi di dollari per la ricostruzione della Striscia; ma le cose non sono andate come previsto: «Fino ad oggi abbiamo ricevuto solo 300 milioni di dollari (circa il 5,6 per cento dei fondi promessi totali – ndr) – ha rivelato ad Irin una fonte del vice-primo ministero Mohammad Mustafa, che sta guidando la ricostruzione a Gaza -. I progetti che stiamo tenendo in sospeso a causa di questo ritardo sono i più impegnativi, quelli cioè relativi alla ricostruzione delle case e delle strade».

La rivelazione del ministero dell’Interno palestinese conferma una situazione assai critica che Robert Turner, capo dell’ufficio Onu per gli aiuti a Gaza aveva denunciato già qualche settimana fa. Il 27 gennaio scorso Turner aveva dichiarato di essere stato costretto a sospendere gli aiuti per le vittime dei bombardamenti su Gaza a, causa della mancata erogazione di fondi da parte delle nazioni donatrici. Secondo Turner «praticamente nulla» dei 5,4 miliardi di dollari promessi, aveva raggiunto il territorio di Gaza. Situazione che si fa drammatica di giorno in giorno, per via dell’urgenza di ricostruire una casa a 96 mila famiglie senza dimora della Striscia, per cui occorrerebbe una spesa stimata di circa 720 milioni di dollari. Va ricordato che l’operazione militare della scorsa estate oltre alla distruzione di strade, abitazioni e infrastrutture, ha lasciato sul campo circa 2.200 morti palestinesi, 72 morti israeliani centinaia di mutilati e feriti. Nonostante la conferenza del Cairo si sia svolta subito dopo l’estate, l’obiettivo di garantire prima della brutta stagione un tetto a molte famiglie della Striscia non è stato raggiunto. E l’inverno non è stato mite, portando con sé violente piogge ed inondazioni (come è avvenuto a gennaio), particolarmente devastanti per le migliaia di famiglie senza dimora.

Sono diversi i motivi per cui gli Stati donatori faticano a pagare. Secondo Irin, oltre ai problemi finanziari di ciascuno Stato, uno dei motivi che frenerebbe i donatori a versare quanto promesso, è l’incertezza politica dell’area. Già prima della conferenza del Cairo diversi Stati donatori avevano manifestato la loro frustrazione; avendo già promesso di donare per la ricostruzione di Gaza nel 2009 e nel 2012. «Senza un cambiamento politico credo che alla fine doneremo – aveva dichiarato ad Irin qualche giorno prima della Conferenza un diplomatico occidentale – ma sarà come un ri-confezionamento dell’aiuto che diamo già oggi… In effetti nessuno dei fondi che stanzieremo sarà una nuova donazione. Non vedo proprio all’orizzonte un così grande coinvolgimento o una così grande speranza…».

Ma chi sono e quanto hanno promesso di dare per la ricostruzione di Gaza gli Stati donatori? La nazione più generosa sarebbe il Qatar, storico alleato del movimento palestinese Hamas che controlla la Striscia di Gaza, che avrebbe promesso da solo un miliardo di dollari; segue l’Arabia Saudita (500 milioni di dollari); poi Turchia ed Emirati Arabi (200 milioni); Unione Europea (568) e Stati Uniti (212). Poi, in forma individuale alcuni singoli Paesi europei ed altre nazioni.

via Terrasanta.net

Mons. Abou-Khazen d’Aleppo: ritrovare la fiducia è oggi la sfida dei cristiani in Medio Oriente

La Custodia di Terra Santa, con i suoi frati presenti in Siria e in Libano, s’impegna ogni giorno di più a favore delle vittime dei conflitti che scuotono il Medio Oriente. Sono numerosi i rifugiati e profughi siriani, iracheni, curdi che bussano alle porte di conventi e chiese per trovare un po’ di tregua, un po’ di cibo, per farsi curare, per educare i bambini… A immagine di San Francesco che, ai suoi tempi, pronunciò le seguenti parole: « Comincia facendo il necessario, poi fai quel che è possibile e realizzerai l’impossibile », i francescani han dovuto far fronte alle emergenze causate dalla violenza del conflitto siriano. Sì è iniziato costruendo una piccola rete tra i conventi francescani sparsi in Siria e Libano, poi, a causa delle continue restrizioni di sicurezza, sono stati creati accordi con altre comunità religiose e laiche per affrontare i bisogni.
Per calcolare l’immenso valore apportato dalle congregazioni religiose nel dramma siriano, bisogna ricordare che una decina di anni fa si contavano soltanto 550 associazioni siriane per 17 milioni di abitanti!
Mentre in Libano e Palestina le associazioni nascono continuamente, il tessuto associativo siriano si è costituito per garantire una parziale legalità, nonostante le innumerevoli restrizioni. Le realtà associative sono, ancora oggi, organizzate da giovani con poca esperienza di gestione o coordinamento.
Uomini e donne di Chiesa, al servizio dei più poveri, sono stati sommersi da situazioni d’emergenza.
La riunione organizzata dai francescani del Libano, lo scorso giovedì 19 febbraio presso il convento di Beirut, ha evidenziato queste tematiche.
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TERRA SANTA – Sindaci palestinesi: il Muro nella Valle di Cremisan soffocherà la presenza dei cristiani

Betlemme (Agenzia Fides del 12/02/2015) – “Vogliono costruire il Muro di separazione nella valle di Cremisan per poi espropriare le terre che appartengono ai cristiani palestinesi. Se ciò avverrà, tutta l’area sarà soffocata dalla morsa del muro, e i primi ad andare via saranno proprio i cristiani”. E’ questo lo scenario futuro prefigurato dal sindaco di Betlemme che mercoledì 11 febbraio ha incontrato, insieme ad altri sindaci, Papa Francesco alla fine dell’Udienza generale.
La visita a Roma della delegazione del cosiddetto “triangolo cristiano” della Cisgiordania aveva lo scopo di esporre alla Santa Sede gli effetti deleteri che la costruzione del Muro di separazione nella valle di Cremisan avrebbe sulle comunità cristiane autoctone nella città e nella regione dove è nato Gesù. “Ormai siamo arrivati a un punto limite. Abbiamo mostrato al Cardinale Parolin le mappe e le foto che avevamo con noi. E lui ci ha ascoltato attento, con molta preoccupazione”.
Il muro di separazione voluto da Israele, dopo aver tagliato il territorio di Betlemme, minaccia ora la zona fertile del Cremisan, dove si trovano terre con vigne e oliveti appartenenti a 58 famiglie cristiane di Beit Jala, insieme a due conventi e a una scuola dei Salesiani. Il tracciato del muro “non risponde in quel tratto a nessuna esigenza di sicurezza, ha come unico scopo separare le famiglie cristiane dalle loro terre per poi confiscarle e allargare l’area a disposizione di nuovi insediamenti illegali israeliani”. Se le terre della valle – che rappresenta l’unico polmone verde di tutta l’area – verranno confiscate, “non ci sarà più futuro per permanenza dei cristiani: la densità abitativa si alzerà a livelli insostenibili” riferisce il sindaco di Betlemme, “e tanti finiranno per scegliere la via dell’esodo, che già da tempo sta riducendo la presenza cristiana in Terra Santa”.
L’area di Cremisan era stata visitata anche dai sedici Vescovi che hanno partecipato quest’anno alla visita in Palestina e Israele organizzata dall’Holy Land Coordination (HLC), organismo che riunisce Vescovi e rappresentanti delle Conferenze episcopali di Europa e Nord America (vedi articolo).

Preghiera ecumenica a Gerusalemme: «Nella persecuzione più uniti»

Pubblichiamo l’articolo di Terrasanta.net del 29 gennaio che racconta di come si sia svolta la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani in Terra Santa.

Di fronte all’avanzata del fondamentalismo islamico, a persecuzioni e sofferenze che subiscono oggi più che mai, i cristiani di Terra Santa devono offrire al mondo due segni: l’amore reciproco e la preghiera. È questo il cuore dell’omelia pronunciata ieri, 28 gennaio, dal Custode di Terra Santa, fra Pierbattista Pizzaballa, in occasione della Preghiera solenne per l’unità dei cristiani celebrata al Getsemani nella basilica dell’Agonia. In Terra Santa la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani si svolge in ritardo rispetto agli altri Paesi, per rispettare la celebrazione del Natale armeno ortodosso, che qui cade il 19 gennaio.

Nella basilica, gremita soprattutto da cristiani locali, canti e preghiere sono risuonati in molte lingue diverse tra cui etiopico, ebraico e arabo. I capi religiosi delle varie Chiese si sono disposti assieme al Custode intorno alla pietra dell’agonia, nel luogo dove Gesù pregò intensamente prima di venire tradito. E il Custode, nella sua omelia, ha commentato un passo della Prima lettera di san Giovanni (1 Gv capitolo 4, versetti 7-16) e il racconto dell’agonia di Gesù al Getsemani (Vangelo di Luca, cap. 22 vv. 39-46). «La Parola di Dio oggi ci richiama a due atteggiamenti tipici della vita cristiana – ha spiegato fra Pizzaballa –. Il primo è quello dell’amore reciproco. I cristiani devono farsi riconoscere non per la potenza delle loro opere o delle loro istituzioni. Non saranno le nostre strategie a salvarci! Il nostro amarci gli uni gli altri deve essere la luce che illumina e che rende presente concretamente nelle nostre opere l’amore di Dio per l’uomo. (…). Il secondo atteggiamento è la preghiera. Può sembrare strano oggi di fronte a tante ingiustizie e soprusi, limitarsi a reagire con la preghiera. (…) La preghiera non è la risposta contro il male del mondo, che richiede certo un’azione concreta (…) essa però ci consente di comprendere il modo nel quale stare dentro questa lotta contro il male (…). Per essere veri costruttori di pace abbiamo bisogno di imparare continuamente il modo di stare dentro la vita, dentro questa lotta, amando l’uomo appassionatamente, attingendo la forza dalla preghiera».

Fra Pizzaballa, incontrando i giornalisti alla vigilia della preghiera ecumenica, ha fatto il punto sul cammino ecumenico in Terra Santa. «Abbiamo avuto una forte accelerazione delle nostre relazioni – ha osservato il Custode -: prima era raro ritrovarsi a pregare insieme o firmare documenti comuni. Negli ultimi due anni, invece, sono accaduti avvenimenti che hanno mutato la nostra percezione: il sentirsi circondati dal pericolo del fondamentalismo ci ha avvicinato molto. Percepiamo infatti che nella nostra società il Califfato ha una forza di attrazione incredibile. I nostri cristiani, che vivono in mezzo alla gente, non riescono a capacitarsi di quello che sentono dire… In tutto questo non possiamo però rassegnarci alla prospettiva della guerra di civiltà – ha concluso il Custode –. Nel senso che la guerra di civiltà non può essere una prospettiva accettabile mai! L’unica prospettiva a cui aspirare è la convivenza di tutti secondo regole chiare e condivise. In questo discorso vale anche il punto di vista della fede: partendo da lì, infatti, non posso credere che ci siano un miliardo e 700 milioni di persone di cui essere antagonisti, così come non posso credere che quel miliardo e 700 milioni di persone siano tutte contro la Chiesa!».

Anche monsignor William Shomali, vicario del patriarcato latino, incontrando i giornalisti ha sottolineato la possibilità concreta di costruire relazioni di pace tra le Chiese. «L’ecumenismo è anche umiltà – ha spiegato mons. Shomali –. In questo senso Papa Francesco, nel corso del suo pellegrinaggio in Terra Santa ha insegnato molto a tutti noi. C’è stato un suo gesto che forse pochi hanno colto, durante la celebrazione comune con il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, al Santo Sepolcro. Tutto era stato studiato nei dettagli, per mettere il papa cattolico ed il patriarca ortodosso sullo stesso piano: La doppia lettura del vangelo, la doppia omelia e anche l’ingresso in basilica l’uno a fianco all’altro. Solo che in un certo punto nella basilica il passaggio diventa stretto e può passare una sola persona alla volta. A chi dare la precedenza tra i due pastori? Poteva nascere un caso diplomatico. Gli organizzatori hanno scelto di non scegliere, lasciando che scegliessero Francesco e Bartolomeo. Sul più bello, quando Francesco e Bartolomeo si sono trovati nel punto stretto, Francesco ha spinto avanti Bartolomeo, obbligandolo ad essere primo». Un altro segno di pace è la presenza, nella Chiesa latina di Terra Santa, di una piccola comunità di lingua ebraica: «Sono 500 persone, ebrei convertiti al cattolicesimo o immigrati. Pochi ma entusiasti! Roma ha deciso di non costituire una diocesi autonoma per questi cristiani di lingua ebraica, affidandoli invece alle cure del patriarcato “arabo”. Così noi cristiani di Terra Santa, di cultura araba e di lingua ebraica, viviamo insieme nella Chiesa, facendo la pace tra noi. E questo è un bel segno per tutti».

Padre Pizzaballa: in Medio Oriente molto è distrutto ma il seme di Gesù, figlio dell’uomo, è vivo

«Gerusalemme ha un valore simbolico altissimo e, insieme, una rete di relazioni e interdipendenze molto strette col mondo. Le tensioni qui sono espressione di quelle mondiali. E viceversa. Se qui si dialoga si può riverberare sul pianeta una capacità di incontro».
Sono queste le parole, tratte dell’intervista di Marco Garzonio a padre Pierbattista Pizzaballa, che più fanno riflettere e sperare sul futuro dell’intera umanità.
Il giornalista del “Corriere della Sera” ha avuto modo di intervistare il frate francescano custode di Terra Santa, in un faccia a faccia che ha toccato argomenti come la marcia contro il terrorismo a Parigi, i rapporti tra Israele e Palestina, l’Isis, l’Islam e molto altro ancora.
Qui di seguito pubblichiamo i passaggi più significativi dell’intervista pubblicata sul noto giornale il 15 gennaio.

Sugli attacchi di Parigi:
«Non sono i primi attacchi terroristici di matrice islamica in Europa. Si pensi a Madrid, a Londra, nella stessa Francia. La novità è l’impatto sull’opinione pubblica. Si stanno determinando le condizioni perché l’Europa compia un’opera di chiarimento su alcune parole lasciate nell’ambiguità. La parola integrazione. Cosa significa? Ci sono valori al centro della convivenza. I diritti fondamentali della persona: libertà di coscienza, uguaglianza uomo-donna, dignità e ruolo della donna, libertà di cultura, di espressione, legislazione sul lavoro, distinzione tra politica e religione e così via. Chi viene in Europa non può metterli in discussione. L’Europa deve chiarire la propria identità, sapendo che per poter integrare devi definire con chiarezza i punti fermi irrinunciabili».

Sulla mobilitazione per la marcia dell’11 gennaio:
«L’Europa di oggi è diversa dai momenti che l’han vista nascere. Non so quanto il solidarismo di ispirazione cristiana animi oggi il Vecchio Continente. Basta guardare a come si è affrontato il tema dell’immigrazione, i salvataggi in mare e le politiche collegate. Certo, ciò che è accaduto a Parigi ha mosso nuove dinamiche, a partire dalla necessità di coordinarsi per rispondere al terrorismo. C’è (però anche) un’Europa che non fa notizia e lavora per l’integrazione, una rete di movimenti, volontari, iniziative. Guardiamo a tale Europa, che conta più di quanto non si creda».

La presenza di Netanyahu e Abu Mazen durante la manifestazione ed i rapporti tra i due leaders: «Non mi sembra che spirino venti di cambiamento. La forza degli eventi li ha obbligati ad essere a Parigi. Ma le relazioni tra Israele e palestinesi non sono cambiate, purtroppo. Le elezioni che ci saranno tra un paio di mesi impongono un’attesa. Si capirà dopo».

La situazione dei cristiani in Israele, Egitto, Siria, Giordania, Iraq, Libano:
«Sono Paesi diversissimi tra loro. Israele non è come la Siria e l’Iraq. L’Egitto, oggi più tranquillo, offre aspetti e dinamiche interessanti e vivaci. Penso all’importante discorso del presidente Sisi dell’università Al Azhar. In generale vedo una debolezza istituzionale diffusa. Certo, incontro situazioni umane drammatiche, ma scopro anche tanta solidarietà, oltre a un’umanità negativa. Sono stato ad Aleppo. È una città da due anni sotto assedio. C’è rimasto chi non sa dove andare. Non c’è acqua e la concessione di un po’ di elettricità dipende dai ribelli. Eppure, imam e parroco si aiutano. I gesuiti distribuiscono 10 mila pasti al giorno e giovani volontari, cristiani e musulmani, li portano a chi ha bisogno. Ci sono tante realtà di cui i media non parlano. Sono il contraltare al fanatismo e alle decapitazioni».

Sull’Isis e l’attrazione che ha verso i giovani europei:
«Non so spiegarmi come il fanatismo possa attrarre. Molti parlano di giovani disperati che vengono dalle periferie dove non c’è nulla. Ma poi vedi che accorrono anche persone istruite e ti chiedi se non vi sia un problema di formazione, l’incapacità di abituare fin dalla scuola i giovani a pensare, confrontarsi, problematizzare. L’Europa e soprattutto il Medio Oriente devono affrontare il tema dell’educazione».

Lo “sguardo” di Papa Francesco:
«Il Papa ha uno sguardo d’assieme sulla realtà mondiale che pochi altri possono avere. Ha colto il cambiamento epocale e, in esso, la violenza che lo abita come nocciolo. Il fanatismo, il dire io sono nel giusto; o diventi come noi, o devi sparire. Poi, a seconda delle situazioni, si avrà in Medio Oriente l’Isis e in Africa Boko Haram. È un ritorno al punto più buio di secoli passati. I religiosi all’interno dei loro mondi (ebrei, cristiani, musulmani) devono aver chiaro il ruolo dell’esperienza religiosa, le relazioni con Dio e tra questi e l’uomo e tra gli uomini, evitando assolutizzazioni che portano ai fanatismi. In questo contesto è soprattutto l’Islam che ha un grosso lavoro da fare in proposito. L’immagine di religiosi che dialogano tra loro è essenziale oggi. Non possiamo restare solo con l’immagine che ci trasmettono i fondamentalismi».

Sull’antisemitismo in Europa:
«Occorre guardare al mondo in trasformazione e a questi spostamenti (le migrazioni dei cristiani del Medio Oriente) senza spaventarsi. Finisce un’epoca, non il mondo. Le discriminazioni contro le minoranze sono la cartina di tornasole della nostra cecità e delle nostre paure. Credevamo che l’antisemitismo fosse finito dopo le efferatezze del nazismo e abbiamo allentato l’attenzione. Purtroppo c’è ancora il pregiudizio antiebraico e va combattuto. Bisogna distinguere aspetto politico e religioso. Si può non condividere la politica dello Stato di Israele, ma tale valutazione non può assumere connotazioni antiebraiche o diventare il pretesto per alimentare forme di antisemitismo».

Sulla percezione dell’Islam in Europa:
«Islam moderato è un’espressione molto europea. Risponde ai nostri bisogni di semplificazione. Dobbiamo imparare a conoscere meglio l’Islam, che è una realtà molto complessa. In quella galassia non tutto è fanatismo, non tutto è Isis: per carità. Certo, ci vuole un grande sforzo da parte dell’Occidente. L’Occidente non ha compreso molto la complessità del Medio Oriente. Prima l’ha visto sotto il profilo dell’occupazione coloniale. Poi per soddisfare i propri bisogni economici ed energetici. Risultato? In Iraq e Libia si son fatti errori. Si volevano fermare dei dittatori, con i quali s’erano avuti rapporti di convenienza? Ci poteva stare, ma le iniziative si prendono se si ha in mente cosa può accadere. Le primavere arabe hanno espresso un cambiamento, ma quando s’è trattato di definire il dopo movimenti spontanei sono stati sequestrati dai fanatismi. I cambiamenti non sono finiti, ci aspetta un periodo di trasformazioni. Per esempio l’Isis non proseguirà nel tempo. Dobbiamo sapere che non si può puntare alla situazione precedente, che non ci saranno un Iraq o una Siria stati nazionali come in passato. (A noi sta anche il ) non rispondere a chiusure con altre chiusure. Il fanatismo si ferma con la prevenzione, combattendo l’ignoranza. I fanatici ci vogliono contro per giustificare i loro attacchi».

Per concludere…

Padre Pizzaballa, lei è ottimista?
«Nel breve no. Sul lungo periodo sì. C’è una guerra in corso, ma le guerre finiscono. E allora c’è solo da ricostruire. Oggi magari non si intravvede una soluzione politica, ma non è finita la missione del Cristianesimo in Medio Oriente. Molto è distrutto, il seme è rimasto. Quello di Gesù, figlio dell’uomo».