Sud Sudan: la pace costruita dal basso
Di seguito l’estratto di un articolo pubblicato sul mensile Mondo e Missione relativo all’iniziativa dei missionari e religiosi del Sud Sudan per la costruzione di un centro per la guarigione della memoria.
Dopo oltre quarant’anni di guerra per liberarsi dal giogo e dallo sfruttamento del Nord, ora il Sud Sudan si ritrova funestato da un conflitto fratricida, che si trascina ormai da un anno. Un Paese fatto di tribù da sempre nemiche, dove il concetto di cittadinanza non significa nulla o quasi.
Per questo, oltre ai necessari e difficili accordi di pace tra le fazioni attualmente in conflitto – quella del presidente Salva Kiir che rappresenta i dinka e quella dell’ex vice Riek Machar, leader dei nuer – è necessario promuovere la riconciliazione dal basso. Ne è da sempre convinta la Chiesa sud sudanese che, già alla vigilia dell’indipendenza del luglio 2011, aveva lanciato una campagna che mirava a costruire un senso più profondo di cittadinanza: «Cambiare i cuori per cambiare il mondo. E per cambiare il Sud Sudan». Ovvero creare un senso di appartenenza al nuovo Paese e far sì che tutti i suoi abitanti si sentissero davvero parte di una nazione e fossero trattati con dignità, giustizia e uguaglianza.
Purtroppo la libertà non è una condizione sufficiente a garantire la convivenza pacifica, migliori condizioni di vita e diritti per tutti. E per questo, la Chiesa è di nuovo in prima fila, e con essa le congregazioni missionarie e religiose presenti nel Paese. Per provare a costruire la pace dalla gente. Il variegato mosaico etnico di questo Paese ha sempre vissuto separatamente, con un forte senso “identitario” tribale e talvolta antiche rivalità. E così il Sud Sudan di oggi continua a essere un Paese senza un popolo, segnato da profonde linee di frattura.
Ecco perché padre Daniele, responsabile della Religious Association of Superiors of South Sudan (Rsass) – che raduna ben 46 congregazioni – sta cercando di realizzare un grande sogno con il sostegno dei vescovi del Paese: quello di creare a Juba un Centro di formazione umana e spirituale, di guarigione della memoria e di peace building. Attualmente oltre un milione e mezzo di sud sudanesi sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni e hanno perso tutto, spostandosi in altre regioni o nei Paesi limitrofi alla ricerca di cibo e sicurezza. Sono oltre 400 mila i profughi e quasi 100 mila gli sfollati interni, che vivono in parte nei campi delle Nazioni Unite – a loro volta attaccati – per paura di ritorsioni e violenze. Tutto questo non ha fatto altro che aggravare la situazione umanitaria. Secondo la Fao, a causa del conflitto e del vasto numero di sfollati, oltre 3,5 milioni di persone soffrono attualmente di livelli di insicurezza alimentare d’emergenza, e non sono in grado di soddisfare le esigenze di sopravvivenza di base, anche con meccanismi estremi come la vendita di bestiame e di altri beni produttivi. E così, in un Paese che coltiva solo l’un per cento della propria terra, la sicurezza alimentare rischia di deteriorarsi ulteriormente.
«Siamo convinti che la pace, la riconciliazione e la convivenza debbano essere costruite anche dal basso. E non si può aspettare ulteriormente. Bisogna cominciare sin da ora a garantire una formazione spirituale e umana a tutti i sud sudanesi, così come al personale della Chiesa». Per questo, lo scorso 11 ottobre, è stato presentato il Trauma Healing and Peace Building Center, un Centro che mira a fare formazione umana e spirituale per la gente e il personale della Chiesa e arricchire il dialogo interreligioso ed ecumenico. Il Centro – unico nel suo genere in tutto il Paese – sarà gestito e curato da una comunità religiosa appartenente alla Rsass che promuoverà ritiri spirituali, seminari e corsi di formazione. «Sarà una grande benedizione per molte persone in questo nuovo Paese e sarà aperto a tutte le organizzazioni, anche ecumeniche, che desiderano condividerne i valori, la visione e gli obiettivi».
«C’è un grande bisogno di guarire i traumi provocati non solo dalla guerra ma anche dalle violenze comunitarie. E c’è un grande bisogno di imparare a risolvere tutti i generi di conflitti. Ma per questo ci vuole formazione e pensiamo che questo luogo possa aiutare le persone, anche di tribù diverse, a incontrarsi, conoscersi, superare i reciproci pregiudizi, condividere non solo sofferenze e paure, ma anche ricchezze culturali e aspirazioni per il futuro». Sarà un lavoro lungo e difficile, di generazioni. «È una missione grande e unica. Ma è molto importante se vogliamo davvero toccare i cuori e le vite della gente per costruire un futuro per questa nuova nazione tra le più povere al mondo».