Punto i piedi e salto in acqua…seconda parte!

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Requena all’apparenza mi sembrò meglio di Iquitos: meno inquinamento, meno traffico, meno confusione. Salimmo su due motocarri e ci recammo alla Missione dei Frati del “Progetto Amazzonia”, al centro della città, proprio di fronte al grande Collegio Lopez Pardo, fondato cento anni fa dai Frati missionari poco dopo essere giunti a Requena.

Non lo avevo messo in conto ma in missione: si parla molto, si legge molto, si mangiano cose che non avresti mai mangiato (una tartaruga, per esempio), si discute di tutto e si conoscono un sacco di cose nuove. Per prima cosa la Chiesa: giunti a Requena incontrammo subito il Vescovo: padre Juan, anzi, come vuole essere chiamato: l’ermano juan. Un uomo “mite e umile di cuore”, che ci mostrò un volto di Chiesa che porterò sempre con me. Una persona unica, al servizio della Chiesa e degli ultimi. Vestito in maglietta e pantaloncini, mai distante nei modi e sempre disponibile all’ascolto, ci accolse con simpatia e… normalità, qualità che non sempre è facile intravedere nei pastori con così grandi responsabilità.

Sistemate le valigie, Pepo ci fece un quadro del programma della missione: avremmo trascorso qualche giorno a Requena e poi saremmo partiti per Sant’Elena, un piccolo paesino sul Rio Tapiche, a un giorno e mezzo di barca. Lì avremmo trascorso circa due settimane, per poi tornare in città.

Nei giorni trascorsi a Requena frequentammo la messa giornaliera, recitammo insieme la liturgia delle ore e ci recammo nelle periferie della città. Periferie segnate dalla mancanza d’igiene, dall’immondizia, dalla presenza di cani randagi malati, da fabbricati in legno, dalla scarsità di acqua potabile. Ma tutte strapiene di bambini. Bambini poverissimi e tuttavia pieni di gioia, una gioia che ti trasmetteva serenità, ma che t’interrogava nel profondo. Con loro giocammo a pallavolo (lì è lo sport nazionale), pregammo, celebrammo la messa, facemmo nuove amicizie. Ovunque andassimo finivamo sempre circondati da bambini. I più piccoli Flavia spesso se li ritrovava anche in braccio. Un pomeriggio Sara, che è medico, poté persino aiutare una donna che aveva appena partorito.

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Sempre con l’obbiettivo di accompagnare i frati nella vita ordinaria della loro missione, c’incamminammo verso San Marco, un quartiere distante poche decine di minuti dalla città. Lì trovammo una situazione decisamente più problematica: niente acqua se non quella fangosa del Rio, niente elettricità e poca, pochissima scuola. Di una cosa imparammo che la selva peruviana aveva fame: di dottori, di sacerdoti, di animatori liturgici preparati e di insegnanti. I bambini frequentavano pochissimo la scuola a causa del forte assenteismo dei docenti, molto spesso residenti in luoghi lontani.

Ma il cuore dei giorni di missione nella selva furono le due settimane a Sant’Elena, un piccolo paesino a un giorno e mezzo di lancia da Requena, sulle rive del Rio Tapiche. Partimmo con la “Perla Negra” di lunedì con l’obbiettivo di raggiungere Sant’Elena il giorno seguente. Ci arrivammo giovedì.

Dopo alcune ore di viaggio Manuel ebbe la pessima idea di vagare con la fantasia: “Immaginatevi se si rompe la barca qui…”, ci disse.

Alle cinque del mattino l’albero motore andò fuori uso. Rimanemmo quattro giorni su quella barca dividendo il nostro tempo tra chiacchierate, dormite, letture, silenzi, pensieri. Ma non fu tempo perso: chiusi in quello spazio piccolissimo ci ricordammo che non eravamo venuti fino a lì per “fare” ma per ascoltare. Ascoltare il popolo peruviano, i missionari e il Signore. Niente di più.

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Essendo circondati dall’acqua non resistemmo al richiamo di farci un bagno… anche perché l’odore cominciava a farsi sentire. Più tardi scoprimmo che non era stata un’ottima idea perché l’acqua era abitata… e non solo da delfini. Sulla barca non eravamo partiti da soli: a piano inferiore della Perla Negra si erano imbarcate diverse persone, che però, già dopo poche ore dal guasto, avevamo avuto modo di salire su alcuni peche-peche di passaggio. I peche-peche sono canoe con un piccolo motore su cui possono starci, a seconda delle dimensioni, fino a sei, sette, forse dieci persone.

I giorni passavano lenti e sempre uguali. Avevamo da mangiare in abbondanza, perché Pepo si era premurato di portare molte scorte per le due settimane, e potevamo fare una sola cosa: aspettare. Il capitano, infatti, la mattina stessa dell’incidente era uscito dalla nave e aveva cercato nelle vicinanze della foresta se ci fossero dei caserìos, cioè degli abitanti della selva. Sono uomini e donne che decidono di vivere in luoghi isolati all’interno della foresta. Evidentemente aveva trovato qualcuno perché Carpio, così si chiamava, era sparito da lunedì.

Pensarci ora mi fa venire i brividi. Eravamo in una situazione pericolosissima: soli, su una barca rotta da tre giorni, in mezzo alla foresta amazzonica e nelle mani di una persona che non conoscevamo, che avevamo già pagato per il trasporto e che non sapevamo se sarebbe mai tornata.

Eppure eravamo felici. Certo non proprio entusiasti, perché tre giorni in pochi metri quadrati con un bagno da film dell’orrore sono tanti e cominciavamo a sentirci come condannati all’ergastolo. Senza contare che il nostro desiderio era di arrivare a sant’Elena. Ma avevamo sperimentato qualcosa di straordinario: essere come bambini impotenti nelle mani di altri. Dovevamo “aiutare” e ora eravamo in cerca di aiuto. Sono i segni tipici dei “fuori schema” che tanto piacciono al Signore.

Il terzo giorno Francisco, a cui prudevano le mani da giorni non potendo lavorare o darsi da fare per gli altri, ci disse: “Andiamo a visitare i caserìos!”. Accettammo subito.

Salimmo sul peche-peche attraccato vicino alla Perla Negra e salpammo verso uno spiazzo non molto distante dalla spiaggia su cui si era fermata la barca. “Lì”, pensammo, “ci sarà sicuramente qualche casa”.

Arrivati non molto distanti dalla meta, notammo due persone che ci fissavano dall’alto della piccola collinetta che si gettava a spiovente sul Rio Tapiche. Ci accolsero un uomo e una donna: lui peruviano e lei dai lineamenti particolari, vagamente orientali. Capimmo pochi istanti dopo che non si trattava di uno stanziamento di caserìos, ma di un piccolo villaggio turistico. Ci accolsero con gioia e a noi parve di sognare: case in legno ben costruite e rialzate da terra, una pagoda, una cucina, dei bagni… se li avessimo visti solo qualche settimana fa ci sarebbero sembrati normali, ora invece sembravano il paradiso.

Era veramente la provvidenza: dopo due giorni di cibo freddo finalmente potevamo mangiare qualcosa di cucinato.

La sera tornammo alla barca e proprio quella notte Carpio si rifece vivo.

Ci mise un po’ a sistemare l’albero motore ma dopo qualche ora la Perla Negra si rimise in moto. Finalmente. Ma i guai non erano finiti.

Manuel iniziò a stare male: prima una febbre leggera, poi sempre peggio, al punto che iniziammo a pensare che fosse malaria. D’altronde tre notti arrestati sulla spiaggia del Rio avevano attirato un gran numero di moscerini, insetti e mosche tropicali. Usavamo i mosquiteros sulle amache ma non era sufficiente ad escludere la possibilità più temuta.

Fortunatamente dopo qualche giorno avemmo conferma che non si trattava di Malaria.

Quando arrivammo a Santa Elena dalla Perla Negra vedemmo per primi i bambini. Seguivano l’imbarcazione dalla strada in paese e, partiti in pochi, erano diventati sempre di più ad alzare il braccio e scuotere la mano per salutarci. Quando l’imbarcazione si fermò, la Perla Negra fu invasa. E non nascondo che ci guardammo un po’ spaventati. Dentro di noi qualcosa diceva: “Vi vogliono derubare!”, “Attenti, è pericoloso!”.

Ci portarono a terra quasi tutte le valigie, le bottiglie d’acqua potabile, i sacchi con il cibo. Volevano aiutarci, non derubarci.

Ci sistemammo nella vecchia missione di Santa Elena, a fianco della Chiesa Parrocchiale: una grande casa con tre stanze da letto, una cucina e una grande sala dove forse un tempo si tenevano gli incontri di catechesi. Eravamo privilegiati: la nostra era una delle poche strutture completamente in muratura, con i vetri alle finestre e le zanzariere. Avere le zanzariere può sembrare un lusso. In realtà in un paese dove la prima causa di morte è la malaria è un dettaglio che può fare la differenza.

L’acqua per le docce e per lavare i piatti era quella piovana, che gli abitanti della selva usavano anche per bere. Non tutti, però: un buon numero utilizzava l’acqua del Rio, che non ingeriva subito ma lasciava in secchi per permettere alla terra di cadere sul fondo.

Le settimane a Sant’Elena furono le più belle e le più intense. La mattina Sara si recava con Francisco al Centro Medico, una specie di piccolo ospedale guidato da un infermiere (dottori non ci sono), per aiutare i pazienti con problemi nella deambulazione, alle ossa o ai muscoli. Io, Sara e fra Manuel, invece, visitavamo le case delle famiglie per una preghiera, per conoscere la popolazione e per invitare tutti alla messa, che veniva celebrata ogni sera alle 18.00.

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Il pranzo era sempre nelle case del paese. Incontrammo tantissime persone, ognuna con una storia particolare e diversa. Ognuna con le sue ferite, i suoi desideri, le sue attese. Ricordo una ragazza madre di sedici anni con il suo bambino. Ricordo il suo sorriso così assurdo e spiazzante. Ricordo due anziani signori in una baracca. Ricordo l’odore. Ricordo le tante mamme con i tanti figli da crescere.

Ricordo un nonno con troppe notti alle spalle e suo figlio disabile. Ricordo quel signore muto da quando aveva avuto un ictus, curato troppo tardi per non lasciare tracce.

Ricordo i pastori protestanti, così diversi: chi improvvisava un sermone, chi si commuoveva al pensiero che qualcuno, fratello in Cristo come lui, si fermasse col sorriso sulle labbra a parlare senza pregiudizi. Ricordo una coppia felice, con i loro bambini, e la signora che ci domandava: “pensavate che nella selva si vivesse seminudi sugli alberi, con le scimmie e i coccodrilli, vero?”.

Vero.

Il pranzo era più o meno sempre uguale: riso bianco, pasta, patate e pollo. Tutto in un unico piatto, insieme a acqua e ananas o acqua e limone. Mai acqua pura, perché il sapore della pioggia non è così gustoso.

Mi sforzavo sempre di mangiare tutto, perché sapevo che per loro non era un pasto povero. Era il pasto dell’accoglienza.

Al pomeriggio si faceva oratorio: dalle tre arrivavano i bambini in missione e si cominciava a giocare. Erano bambini che non avevano mai avuto nessuno, al di là di mamma e (quando c’era) papà, che li facesse giocare, pregare e divertire. Bambini pieni di voglia di vivere, affamati di giochi nuovi. Giocavamo spesso a calcio, a piedi nudi, sul grande campo nel centro del paese. E posso dire di non aver mai visto dei bambini divertirsi così tanto a giocare a pallone. Ridevano, ridevano sempre. Mai un litigio, una parola di troppo per qualche spinta o fallo.

Si giocava veramente.

Finito il tempo dei giochi, dopo una doccia (ghiacciata se il tempo era stato brutto), c’era la messa, i vespri e la cena. Bisognava terminare di mangiare presto perché l’elettricità arrivava in casa dalle sei alle nove di sera. E se non si cucinava in tempo non si mangiava o si mangiava freddo. Dopocena, seduti intorno al tavolo, parlavamo molto, spesso accompagnati dall’immancabile “manzanlla”, la camomilla della sera. Non so quante camomille abbiamo bevuto ma devono essere state davvero tante.

A Sant’Elena vivemmo in pieno anche il tempo della festa del paese, che riempì le strade di tanti “borrachos”, ubriachi. Vedemmo uomini trasformarsi in larve senza dignità. Come una droga usata per scappare dalle sofferenze, dalle povertà, soprattutto umane, che succhiavano il sangue agli abitanti della selva, la “fiesta de la Virgen” servì da narcotizzante.

Lì scoprimmo un altro volto dei “figli della selva”.

Ci fu anche il tempo per una “pizza amazzonica” cucinata nel grande forno in terra di un panettiere di Sant’Elena e per una giornata passata a pescare.

I giorni trascorsero veloci e il tempo di tornare a Requena giunse inesorabile. Il viaggio questa volta non durò molto, o perlomeno non quanto quello d’andata. Tornati in città ci fu il tempo per una nuova piccola Missione a San Marco, dove trascorremmo gli ultimi giorni in Perù.

E fu il tempo della revisione, dell’esame di coscienza. Cosa ho lasciato e cosa mi ha lasciato questo posto? È servita tutta questa fatica?

Sono stato realmente missionario?

Abbiamo lasciato qualcosa che rimarrà qui o è stato tutto un buco nell’acqua?

Abbiamo portato Gesù alle persone che abbiamo incontrato?

Ho vissuto al meglio questa esperienza?

Di nuovo domande, e ancora domande.

Ma la verità è che il Signore ci aveva parlato in queste settimane. Aveva mostrato il suo volto attraverso tante persone. E a noi non restava che accorgercene.

Punto i piedi e salto nell’acqua.

Il colore grigio del Tapiche mi accoglie e mi abbraccia fino all’ultimo dito del piede.

L’acqua è fredda. Vedo poco o niente.

Risalgo in superficie e mi accorgo che la corrente è forte e mi sta trasportando.

Sento i vestiti che mi si sono appiccicati addosso, l’aria fredda che arriva sul volto.

Ma sono qui per una ragione: devo riprendere il pallone.

Muovo le braccia in stile libero e con mia sorpresa arrivo quasi subito alla meta.

Agguanto il pallone e mi giro verso Francisco. “L’ho preso!”

La corrente mi trasporta.

Provo a nuotare controcorrente, verso la zattera da cui ero partito. Ma resto fermo.

Allora capisco: devo nuotare a riva. Due bracciate e finalmente tocco terra.

Lancio la palla a Francisco.

“Cavolo… ce l’ho fatta!”, penso tra me.

Il sole si sta abbassando.

È tempo di tornare a casa.

Un abbraccio di pace

mirko