Partire verso la stella…per un incontro!

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Partire per Betlemme. Già dal nome è implicita la partenza per un luogo lontano ma vicino nel cuore. Il posto dove il nostro Signore ha assunto su di sé la finitudine, il luogo dell’incontro tra l’umano e Dio. Sapevo quindi che sarebbe stato un luogo di un incontro importante, un incontro che si è declinato in tanti volti differenti.

Mi rivedo ancora, l’ultimo giorno a Betlemme, seduto intorno a un tavolino di Casanova, la struttura di accoglienza dei pellegrini, con mia moglie Silvia accanto e tre bimbi magnifici seduti di fronte. Sono stati l’ultimo incontro che ho fatto, già a metà del viaggio. Sono i bambini della Hogar di Betlemme, bambini diversamente abili ed abbandonati dalle proprie famiglie, bambini accuditi con Amore dalle suore del Verbo Incarnato. DSC_0810Quel giorno Wisam, Alah e Baha erano stranamente buoni, quasi che finalmente riuscissero a percepire le mie indicazioni. O piuttosto che avessero capito che stavamo per partire? L’autismo o il ritardo non  gli impediscono, in varie forme, di mostrarci i loro sentimenti. A volte sembrano comprensibili, a volte si capisce solo il bisogno che c’è dietro alle loro richieste, ma c’è un flusso di comunicazione continua. In quel momento sapevo che quei bimbi mi sarebbero mancati. E il groppo allo stomaco che provo ora che scrivo me lo conferma.

Quei bimbi mi hanno mostrato tante mie debolezze, ma mi hanno anche permesso di stupirmi di me stesso. Perché ciò che prima mi spaventava, l’abbraccio con il diverso da me, mi è riuscito incredibilmente naturale. La distanza si è fatta subito piccola per poi abbattersi. Non lo avrei mai detto che sarebbe stato così naturale! Nella mia vita precedente, quando sono stato conteso tra essere ateo o agnostico, vedere questo mistero della vita mi atterriva. Non riuscivo a penetrare nel dolore innocente, un dolore che inevitabilmente mi allontanava dall’incontro col Signore. Non capivo. Anche oggi, che il mio percorso è cambiato, che il Signore è entrato nella mia vita, non capisco. Ma so che l’incontro e l’abbraccio di Betlemme mi hanno mostrato un’infinita complessità, anche dolorosa, che è il campo di gioco dell’Amore. Ho provato tenerezza, compassione, Amore. Ho visto in quella debolezza la fragilità del nostro Signore che nasce a Betlemme.

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Riaccompagnando i bambini alla Hogar, mi sono ritornati in mente i momenti più emozionanti: tenere tra le braccia il corpicino di Wasin, dare da mangiare ad Amani, una bimba con due occhi profondissimi, e Hiba, con i suoi riccioloni d’oro. E poi Kader con la sua astuzia e intelligenza, Catcut dolce come lo zucchero e così tenero, Sabrin, sveglia e desiderosa d’affetto. DSC_0491Per chi legge rimarranno nomi sulla carta, magari una piccola emozione strappata dalle mie parole, ma per me sono stati, sono e saranno una testimonianza viva del volto del Padre, che ci cerca nell’umiltà, nella cura del prossimo.

Una consolazione nel lasciare i bambini dell’Hogar deriva dal sapere che sono affidati alle cure amorevoli delle Suore del Verbo Incarnato. Donne dolci e forti. Mamme. Un faro di misericordia nell’accudimento di bambini che altrimenti sarebbero spacciati, visto che per i Palestinesi, in molti casi, questi bambini sono una vergogna, per non dire altro… Invece sono bambini bellissimi, che ti possono cambiare la vita. Come l’hanno cambiata a noi, e a Paolo, una delle persone più speciali che abbiamo incontrato nel nostro pellegrinaggio. Paolo era, ed è tuttora, a Betlemme per fare la fisioterapia ai bimbi dell’Hogar più gravi. L’abbiamo conosciuto nel condividere l’alloggio, nel condividere le giornate, nel condividere la messa alla mattina nella grotta della Natività. È una persona speciale che si dedica a quei bimbi con Amore. Non potete sapere che gioia ho provato, alcuni giorni fa, quando ci ha scritto che per Lui il Natale era già arrivato, con quasi un mese di anticipo: Hiba, per la prima volta nella sua vita, aveva mangiato senza ciondolare la testa! Che emozione, che gioia! Un piccolo miracolo frutto di Amore e dedizione. Quell’amore caritatevole che Paolo ha testimoniato in giro per il mondo. Una lezione, importante.

È familiare pensare di incontrare un bambino a Betlemme, è ciò che anche io mi aspettavo. Eppure in maniera inconsueta, come è tutta la vita, la nostra esperienza è iniziata con un altro incontro, quello con le “nonnine” dell’Antoniano, un istituto che si prende cura degli anziani di Betlemme attraverso l’operosità di tre piccole Suore dell’Hortus Conclusus. DSC_0555Un altro incontro, un incontro diverso. La «partenza» con le nonnine di Betlemme è stata un po’ titubante ma allo stesso tempo emozionante per entrambi: la nostra non era una visita attesa, non erano abituate ad una presenza prolungata di volontari, il che sembrava far nascere in loro una domanda: «E quindi?». Ma col passare dei giorni il ghiaccio si rompeva e anche i limiti della lingua sembravano meno severi. Silvia, in quanto donna e peraltro capace di comunicare anche con l’arabo, aveva una marcia in più, ma anche io, usando tutta la mia inadeguata capacità comunicativa, mi facevo strada. E così, in punta di piedi, sono entrato nella vita di Helwa, una signora tanto dolce quanto sola. Negli ultimi giorni ci voleva ospitare nella sua casa, una casa grande per lei che era rimasta vedova molto giovane per colpa della guerra e che poi, più avanti, era stata abbandonata dai suoi nipoti. Sentiva il bisogno di essere mamma, nonna. In poco tempo abbiamo visto risvegliarsi in lei istinti che sembravano sopiti da anni. Ma ha anche sofferto un riacutizzarsi di una ferita sempre viva. Al momento di ripartire l’abbiamo vista stanca, come se la stanchezza e il dolore di una vita fosse su di lei. L’ho vista così fragile che ho capito che già le volevo bene. E poi Mona, giovane per stare con degli anziani, così curiosa con il suo quaderno, sul quale cercava di apprendere tante lingue insieme che alla fine si riduceva in un esperanto multicolore. E poi Linda, chiusa in una malattia mentale fulminante che la chiudeva in se stessa, ma lei comunque a cercare di comunicare con strani gesti. E come dimenticare Mary? A 102 anni ancora capace di emozionarsi e di chiederci il perché della nostra andata e quindi del nostro dover tornare. E poi Neli: bloccata in un letto con un tanto sorriso malinconico quanto persistente… Così grata a Dio del piccolissimo dono ricevuto: la nostra visita! Quel sorriso non potrò dimenticarlo e spero e prego che possa illuminarsi di nuovo nel futuro!

All’Antoniano abbiamo avuto la grazia di incontrare tante persone speciali, ognuna a modo suo. E come sono sicuro che tutti questi incontri mi rimarranno dentro, so anche che alcune di queste vite, intrecciandosi con le nostre, ci hanno indicato una direzione, una vita. E così mi torna in mente Miriam, con la sua fede forte e limpida, così ispirata dal suo dialogo con Dio. Ci ha raccontato la sua incredibile storia personale. Ha pregato e prega per noi facendoci sentire davvero fratelli anche se ci sono un mare e un muro che ci separano. Qualche giorno fa ha chiamato Silvia per sentirla: è stato un intervento quasi provvidenziale!DSC_0345

Ma soprattutto Raquel, questo è uno dei doni più grandi che il Signore ci ha fatto. Per capire che l’umiltà e la povertà non devono essere confusi con l’indigenza! Perché mi ha fatto toccare con mano quanto il Signore può entrare nella tua vita se tu glielo concedi. E come, allo stesso tempo, le vie del Signore sono distanti da quelle dell’uomo. Impenetrabili a un’analisi superficiale, richiedono tanto discernimento e mansuetudine. Raquel è un dono perché ha saputo comprendere, per prima, un linguaggio segreto tra me e mia moglie. Ha saputo dargli senso, da profonda ricercatrice di senso nella sua vita. Per dirlo con le parole di Fra Pierpaolo, una persona dalla spiritualità altissima!

E qui arrivo all’incontro finale, l’incontro che precedeva la partenza e che ci ha aperto la strada: Pierpaolo. Non solo guida, non solo padre ma anche e soprattutto fratello. La conferma che partire «insieme» fa portare tanto frutto! Fra Pierpaolo era lì ad aspettarci a Tel Aviv, è stato la nostra guida in Terra Santa. Ci ha mostrato le bellezze di Betlemme, non solo quelle materiali, ma soprattutto quelle spirituali. Ha guidato la nostra riflessione e si è preso cura di noi. E non ci crederete: mi ha anche fatto cambiare abitudini: mi sono convertito al caffè d’orzo!

Da questa missione ad gentes ho imparato tanto, ma sento che oltre all’imparare della ragione, nuovi orizzonti si aprono per me e per Silvia. Ho visto, ho sentito come essere luce. Ho capito quanto è difficile esserlo. Quanto coraggio e quanta radicalità ci voglia. Un coraggio ed una radicalità che a volte danno le vertigini. Mi sento in cammino. E mi piace questo cammino perché sento che sto realizzando la mia vocazione più grande: amare e custodire Silvia. Senza di lei tutto questo non sarebbe avvenuto. Senza Silvia forse sarei ancora al buio, ancora in ricerca. Silvia una volta ha detto che attraverso i miei occhi, nel mio volto ha visto l’immagine di Dio che la ama. Vale anche per me, e prendo in prestito le sue parole non essendo altrettanto poetico!

Una piccola riflessione sulla missione ad gentes in una terra in larga parte musulmana: come diceva San Francesco ai suoi che partivano per recarsi tra gli infedeli, la prima cosa da fare per poter essere testimoni è dare testimonianza amandosi e prendendosi cura dell’altro. E più di una volta ci è stato chiesto: perché siete qui? E chi vi paga??? Domande che possono sembrare quasi ridicole, che mostrano una distanza, ma che mi dicono che una piccola provocazione è arrivata a chi la domanda ce l’ha posta. È una missione nella quotidianità, una missione in punta dei piedi.

Stefano