Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te…
Settembre 2013
La vita con i ragazzi è una continua riscoperta delle parole di Gesù, soprattutto delle sue parabole.
Avantieri, una nostra vecchia conoscenza, J., si è ancora una volta (l’ennesima, da quando era piccolino) presentato al centro e la canzone era sempre la stessa: non ce la faccio più, non so dove andare, non ho un lavoro, mi pento di aver ogni volta scelto la strada, ti chiedo perdono… riprendimi al centro.
Questo mi faceva venire in mente quella parabola del figliol prodigo che, prima sceglie di andarsene per conto suo, abbruttendo la sua vita nel “benessere” e tornando poi da suo Padre quando non ha più altre “chances”.
Certo, di fronte a un ragazzo, ormai quasi uomo fatto, che viene sbrindellato al centro, imbrogliato dalle false luci che ci accecano e ci orientano nelle mille direzioni del nostro benessere, soprattutto quando – da giovani o meno giovani – non abbiamo ancora una capacità di ben scegliere il bene che ci fa bene…, la prima cosa che mi viene da fare, dicevo di fronte a questo “reduce da una ennesima guerra persa”, è quella di rimetterlo in piedi, farlo lavare e rivestirlo in modo decente (la veste migliore, Lc 15,22, che – vista l’età – devo andare a cercarla tra i miei vestiti); farlo sentire di nuovo a casa, senza stare a fargli troppe paternali (l’anello al dito); rendergli la dignità di uomo (i sandali ai piedi, visto che – soprattutto qui – si dice che sono gli animali ad andare scalzi): anche questi evangelici sandali, cercati nell’ultimo paio di ciabatte che mi restano; e poi farlo mangiare (il vitello grasso) per togliergli quella fame di giorni che si è trasportato fin qui chissà da dove…
A quel punto possiamo parlare, mettendo da parte tutti i bla – bla della serie “padre, ho peccato, mi pento ecc., tanto sappiamo tutti che è solo la fame che ti ha spinto ancora una volta qui.
Certo quando meditiamo quella parabola, ci hanno insegnato a fare attenzione soprattutto all’atteggiamento del figlio maggiore, che si sdegna contro suo Padre quando si rende conto delle “musiche e danze” (Lc 15,25) per “il fratello peccatore”, in un atteggiamento farisaico che prima ci riempie di scandalo da perbenista nei suoi confronti e poi, quando capiamo che in fondo quel figlio siamo anche noi, abbiamo difficoltà anche solo a capire perché dovremmo sentire vergogna… Pensiamo a quando per esempio facciamo tanti discorsi sul perdono, ma poi ci sdegniamo se una ex prostituta viene promossa alla carriera politica oppure se un prete dal passato dubbio viene elevato alla dignità episcopale… semplicemente non accettiamo (esattamente come il figlio maggiore).
Ma è vero anche che noi siamo quel figlio minore, che tante volte si allontana dal Padre, ricco di tutti i beni di cui Egli ci colma ogni giorno (la vita, la salute, le amicizie, le persone che ci vogliono bene, le opportunità della vita…) e al quale ritorniamo quando non sappiamo dove altro andare a parare (il figlio minore non torna perché pentito ma perché ha fame e cerca di progettare un dialogo convincente per imbrogliare ancora una volta suo padre con dei buoni propositi, delle frasi imparate a memoria – 15, 17 – un po’ come quelle che diciamo quando andiamo a confessarci…).
Meditavo, a partire dalle situazioni al centro, ma anche dalla mia – e nostra – vita, e riflettevo che è vero che la parabola non dice se il figlio maggiore entrerà alla fine o no al banchetto che il Padre prepara per il figlio minore ritrovato… Ma è anche vero che la parabola non dice se, dopo un iniziale momento di gioia, lo stesso tarlo che ha spinto il figlio minore a partire una volta, lo farà partire ancora.
Parabole, vero, ma da quel poco che conosco di Gesù, quello che dice, lo attinge a piene mani dalla vita vissuta, la sua e quella di chi lo circonda, leggendo il tutto nella chiave della relazione con Dio.
Allora, se l’uomo – come è vero – è sempre lo stesso, sicuramente ci sarà stato un seguito a quella storia che Gesù ha conosciuto ma di cui ha voluto tramandarcene solo la parte che gli serviva per farci passare il messaggio che più gli stava a cuore e che cioè Dio ci ama sempre e comunque, che non conta i nostri peccati su un pallottoliere ma che spera sempre in un nostro ritorno a casa.
Ma la storia resta, quella che Gesù ha conosciuto, quella del nostro J. e quella di ciascuno di noi. E quella “strada di casa” l’abbiamo consumata facendola diventare un solco con i nostri va’ e vieni. Quante volte ritorniamo a lui e quante altre volte ci riallontaniamo. E il dramma per me è proprio lì: se dovessi applicare le regole del buon senso a J. e a tutti i ragazzi che “vanno e vengono”, dovrei dirgli che oramai è grande, che ha fatto le sue scelte – e che io (in un tono falsamente borghese) rispetto – e che quindi oramai non c’è più posto per lui, e che non posso neanche impegnarmi a cercare una soluzione per lui perché devo preoccuparmi di chi è in casa (le 99 pecore che non si sono perse?) ed ha quantomeno la volontà di riscattarsi impegnandosi ogni giorno, facendo quello che bisogna fare, stando alle regole e bla bla bla…
Ma se le stesse regole del buon senso fossero applicate da Dio nei miei confronti, sarei nei guai.
E allora è meglio mettere il “buon senso” da parte e ridare al Vangelo il posto centrale, riformularlo nella nostra vita come criterio fondamentale. Certo, è quasi sicuro che riaccogliere o rioccuparsi di un ragazzo come J. al 99,5% è tempo perso, ma questo solo se ragioniamo in termini umani di efficienza (se alla fine riuscirà o no a diventare responsabile). Ma c’è un altro criterio che ci interpella: J. saprà che comunque vadano le cose, per quanto difficile possa essere la conseguenza della sua scelta, per quanto in basso il peccato lo possa buttare, QUALCUNO (che noi indegnamente rappresentiamo) non lo condannerà mai e sarà sempre disposto a cercare, tra le ultime magliette rimaste nell’armadio, un’altra “veste migliore” da fargli indossare.