Lettera di Novembre da parte di P. Adolfo
In casa abbiamo un ragazzo di 18 anni, D., che – pur avendo una famiglia – è costretto a vivere lontano da loro. Per vari motivi (non è il primo né l’unico).
Lui è sempre molto taciturno, un po’ schivo e timido, anche se sa mostrarsi molto “di compagnia” quando facciamo le serate insieme.
Un giorno ha dovuto sottomettersi a un intervento chirurgico (un’ernia inguinale) e il dottore che lo ha operato lo ha ricevuto al mattino per la diagnosi e ce lo ha rimandato con un educatore nel primo pomeriggio in taxi già operato (è rientrato in camera sulle sue gambe).
Ma siccome era ancora un po’ sotto anestesia, non credo che riuscisse in quel momento – fra dolore e rintontimento – a gestire ciò che diceva e probabilmente, senza i tabù dello stato di veglia piena, diceva in fondo ciò che pensava.
Mentre era a letto e io gli ero accanto, mi guarda e mi dice: “Perché i miei genitori non mi vogliono bene?” “perché quando passo da loro nessuno mi chiede mai: come stai?”
Da parte mia cercavo di non fargli pesare questo dicendogli che la sua famiglia è molto povera e non riesce a gestire tanti altri figli più piccoli di lui, per cui non è mancanza di amore ma solo probabilmente mancanza di tempo… lui si limitava a guardarmi senza dire niente. Probabilmente capiva che neanch’io credevo a ciò che stavo dicendo rinunciando quindi a continuare a porre quelle domande che diventavano per me imbarazzanti.
E la lotta quotidiana – soprattutto in casi del genere – è proprio questa: cercare di essere padre senza sostituirsi alla loro famiglia d’origine, ma dare comunque un sostegno – una forma comunque di famiglia – a chi di fatto se ne trova privato.
E poi essere padre. Senza paternalismi. Credere nella capacità di ogni ragazzo di progettare e investire sulla sua vita ma al tempo stesso accompagnarlo per evitare di farlo cadere in sentieri d’illusione.
Compito non facile anzi decisamente difficile. È più facile pensare al loro posto, progettare al loro posto… ma anche questa strada si può rivelare un sentiero d’illusione. Pensare di poter dire “io so cosa ci vuole per te, io so cosa è bene per te”… manifesta già la nostra insicurezza nei confronti delle sue capacità, dei suoi sogni.
Ma se è vero che si dovrebbe essere padri senza paternalismi, è anche vero che bisogna far crescere nei figli la coscienza di essere figli e non solo clienti.
In sostanza, i doveri dei genitori non sono gli unici elementi dell’insieme “doveri famigliari”. Anche i figli hanno dei doveri. Non volerli considerare diventa fonte di insuccesso nella loro crescita al pari di un paternalismo fuori posto.
L’ascolto è il mezzo forse migliore per dare e avere. Avere la capacità di accogliere il momento favorevole per fare un passo che non sia solo l’iniziativa di un genitore (potrebbe in qualche modo essere rifiutata).
Adesso D. si è rimesso, sta bene. Ultimamente mi ha chiesto se sono disponibile a fargli delle ripetizioni di inglese. Ho accettato. Ripensandoci mi rendo conto che lui ha faticato non poco per chiedermi qualcosa. Non so alla fine se è dell’inglese che ha bisogno oppure semplicemente di un po’ d’attenzione personale. Ma sono contento che stia imparando a chiedere. L’inglese sarà l’occasione per lui di imparare qualcosa che lui stesso ama, e per me, l’occasione di considerarlo un po’ di più senza che la cosa sia stata proposta (o imposta) da me.