Le città invisibili

L’ultimo rapporto Onu annuncia 51,6 milioni di profughi al mondo, mai così tanti dalla seconda guerra mondiale. Le strutture che li ospitano non appaiono su nessuna carta geografica, eppure creano una nuova urbanistica.

A fare i conti con le cifre, c’è poco da stare allegri. Fra rifugiati e profughi interni, sono 12 milioni le persone che vivono oggi nei 1.500 campi stabili e ufficiali del mondo. A questi si aggiungono i campi auto-installati (diverse migliaia) e più di mille centri di detenzione amministrativa: 10 milioni di persone abitano in strutture che non appaiono sulle carte.

Lo fanno in una condizione fra l’invisibile e il reale, di pari passo con i non-luoghi che occupano. Mal repertoriati, o addirittura non catalogati, questi spazi non sono più la soluzione temporanea all’urgenza umanitaria, che ne giustificò la creazione. Dieci, trenta, talvolta quarant’anni dopo si sono strutturati come città parallele, forme concrete e stabili di urbanizzazione marginale. Al punto da far concorrenza alle città «vere»: i quattro campi kenyani di Dadaab, al confine con la Somalia, sono la terza agglomerazione del paese, dopo Mombasa e Nairobi. Il più grande campo al mondo.
Il fenomeno prende dimensioni globali. Se migrazioni e spostamenti sono da sempre alla base della formazione di nuove città, l’urbanesimo dei campi delinea una nuova geografia, tanto più complessa quanto ha a che fare con le conseguenti politiche umanitarie, dove nuove architetture strutturano gli spazi sulla base di barriere, recinti, divieti. Potenziali città in divenire, rimangono forme chiuse e danno vita a ghetti o bidonville.
Su un periodo compreso fra gennaio 2009 e luglio 2013, è possibile individuare circa 400 siti di esistenza confermata: campi profughi istituzionali (fondati dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati – Acnur – o dai governi locali) e centri di detenzione amministrativa (dai Centri di identificazione ed espulsione, ai campi di richiedenti asilo, ai punti di transito frontalieri) con capacità uguale o superiore a 50 posti.

Se la carta dà voce solo a una minima parte dei siti esistenti – sfuggono i campi di lavoro, gli auto-installati e un’infinità di luoghi di sequestro dei migranti in situazione irregolare, specie negli stati federali – l’individuazione per zone basta al colpo d’occhio. Con l’eccezione del sudest asiatico e parte dell’Australia, dove più frequenti sono le detenzioni, una demarcazione netta si delinea fra nord e sud del mondo, con la concentrazione dei luoghi di reclusione in America centrosettentrionale; in Europa, nel bacino mediterraneo; e nei campi profughi in Africa, Asia, Medio Oriente.

Si aggiunge alla selezione, l’indice di profughi interni, gli sfollati per causa di conflitti armati o crisi che rimangono all’interno del loro paese. Secondo l’ultimo rapporto dell’Internal displacement monitoring centre (Idmc, ong norvegese), sarebbero 33,3 milioni sui 51,6 totali (interni e non). Mai così tanti dalla seconda guerra mondiale. A fine 2012, Lagarde ne individuò 4 milioni in Colombia e oltre 10 milioni in Africa, dove la grande maggioranza risiede nella Rd Congo, in Sudan e in Somalia.

In Siria, se al numero degli sfollati interni si aggiunge quello dei rifugiati oltre frontiera, il picco di profughi – che trovano prevalentemente riparo in Libano, Giordania o Turchia – tocca nuovamente i 10,5 milioni.

L’Africa presenta casi molteplici, con cifre esponenziali. Dadaab, ad esempio, è passato dalle 125mila presenze del 2000 alle 450mila di oggi. E il continente ospita la schiacciante maggioranza dei campi auto-installati. Sono questi i più precari, e perciò sfuggenti alle cartografie, dove i flussi sono intensi e le installazioni presenti da più tempo. In alcuni casi accade, però, che il confronto fra l’ordine umanitario e il quotidiano dei migranti dia vita a situazioni anomale, dove gli occupanti rompono la dipendenza nei confronti delle strutture umanitarie e ricostituiscono autonomamente la comunità.

L’esperienza di Haiti è senza dubbio l’esempio da seguire. Al campo ufficiale Corail – aperto nel 2010 per accogliere gli sfollati – i migranti hanno opposto Canaan, un campo auto-istallato con circa 250mila persone, a qualche chilometro di distanza. Anche se tecnicamente impeccabile, Corail viene abbandonato per il mancato adattamento al modo di vivere locale, e riprodotto in modo informale, senza aiuti umanitari o nazionali né elettricità, con risultati positivi nel tempo.

fonte NIGRIZIA