L’Africa e l’ideologia del Prodotto interno lordo – La crescita fasulla
Articolo tratta dal mensile “Nigrizia” , numero di maggio 2014
Quando parliamo di povertà, noi occidentali facciamo ricorso sempre a parametri di carattere monetario senza mai pensare al fatto che il reddito monetario può essere considerato un parametro solo nei sistemi economici in cui le persone non possono fare altro che comprare tutto ciò che serve per vivere, perché non capaci di autoprodurre nulla, né di instaurare rapporti di solidarietà tra loro.
In questo contesto è stato possibile spacciare come indicatore del benessere il Prodotto interno lordo (Pil), che cresce anche quando la produzione di merci inutili (il cibo che si butta), dannose (le sigarette, gli sprechi di energia, le armi), riparatorie di danni causati dalla crescita della produzione di altre merci (le bonifiche degli inquinamenti). Mentre non cresce, anzi diminuisce, se qualche superstite continua ad autoprodurre beni per autoconsumo, come, per esempio, gli ortaggi in un orto familiare, invece di comprarli.
Un’economa finalizzata quindi alla crescita della produzione ha bisogno di persone che non sanno far niente e devono comprare tutto.
Ma in una società in cui l’autoproduzione di beni e i rapporti basati sull’economia del dono hanno un peso rilevante, il denaro non è la misura della ricchezza ma il mezzo che consente di acquistare, sotto forma di merci, i beni e i servizi che non si possono autoprodurre o ottenere sotto forma di scambi non mercantili, perché richiedono tecnologie evolute o competenze professionali specializzate.
Nei paesi occidentali è radicata la convinzione che il Pil pro-capite costituisca l’indicatore fondamentale del benessere e, di conseguenza, che la loro organizzazione economica, rappresenti la forma più avanzata di civiltà. Non a caso si autodefiniscono sviluppati e lo sviluppo dei popoli sottosviluppati consisterebbe dunque in un processo di trasformazione economica e sociale effettuato sul modello dei paesi occidentali.
Occorre quindi essere convinti che il benessere consista nel tanto-avere e che la concorrenza sia eticamente superiore alla collaborazione. La versione più ambigua e pericolosa di questa convinzione è quella di coloro che operano con spirito umanitario nei confronti dei popoli che definiscono sottosviluppati, convinti che il superamento del sottosviluppo si realizzi con l’aumento dei redditi monetari pro-capite, ovvero in prima istanza con la trasformazione dell’agricoltura di sussistenza con vendita delle eccedenze in produzione agricola per il mercato.
Invece di esportare il nostro modello economico fondato sulla crescita della produzione di merci, come fanno le aziende multinazionali, sarebbe meglio abbandonare l’ideologia della crescita, potenziando le tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse in modo da ridurre gli sprechi a parità di benessere, e riscoprendo l’importanza dell’autoproduzione di beni, come facevano le generazioni precedenti.
E’ questa l’unica strada che consente di ottenere una maggiore equità nella distribuzione della ricchezza reale tra i popoli, senza aggravare la crisi ambientale né pregiudicare le condizioni di vita delle generazioni future.
Vedi anche: Movimento per la decrescita felice