IRAQ – Una luce ad illuminare la drammatica situazione degli sfollati
Secondo i dati ufficiali, l’aumento della violenza in Iraq ha causato circa 1.8 milioni di sfollati da gennaio 2014. Quasi la metà ha trovato rifugio nelle scuole, nei campi sfollati o negli edifici dismessi del Kurdistan iracheno. Tuttavia la situazione resta molto precaria per centinaia di migliaia di persone. Secondo un comunicato dell’ong Medici Senza Frontiere (MSF), si stima che il solo Governatorato di Dahuk ospiti più di 465 mila sfollati e le autorità locali stanno cercando di far fronte alle loro nuove esigenze. Le cattive condizioni di vita, il sovraffollamento e la mancanza di servizi igienico-sanitari stanno mettendo seriamente a rischio la salute di queste persone. Ora che le temperature iniziano a scendere è pronto un solo campo sfollati, mentre altri due sono in fase di completamento.
Nell’Iraq Centrale, la situazione umanitaria è sempre più preoccupante. Centinaia di migliaia di persone sono rimaste bloccate nelle zone colpite dal conflitto e controllate dalle forze ribelli e hanno pochissime possibilità di fuggire. Nel Governatorato di Anbar, gravemente colpito dal conflitto, ci sono più di 370 mila sfollati. Le condizioni di sicurezza sono precarie e rendono difficile l’assistenza umanitaria anche se ogni settimana vengono effettuate nell’ospedale più di 700 visite mediche. Nella zona dal 2 ottobre si susseguono tra l’altro pensanti scontri tra i combattenti dello Stato Islamico e l’esercito iracheno.
Se da una parte quindi l’Iraq soffre pesantemente per la drammatica situazione degli sfollati, dall’altra c’è qualcuno che reagisce.
Il 9 novembre infatti la chiesa caldea di San Giorgio, nel villaggio di Tel Isqof, in una zona della Piana di Ninive contesa tra jihadisti dello Stato Islamico (IS) e truppe curde, è stata riaperta dopo mesi di abbandono. Un sacerdote vi ha celebrato la liturgia eucaristica, davanti a un gruppo di giovani.
Un gruppo di giovani uomini, attualmente rifugiati in Kurdistan, sono voluti andare fin lì con un sacerdote per poche ore, con l’intento di aprire la chiesa, far suonare le campane e partecipare alla celebrazione della Messa. Dopo la liturgia sono ritornati al nord, nei luoghi dove al momento vivono come profughi. L’iniziativa ha avuto anche un valore simbolico: “è stato un modo per dire che non ce ne andiamo dalle nostre terre, e che coltiviamo con tenacia la speranza di tornare presto nelle nostre case e nelle nostre chiese” afferma padre Paolo, attualmente rifugiato a Ankawa, distretto a maggioranza cristiana di Erbil.
Articolo realizzato grazie agli aggiornamenti pervenuti negli ultimi giorni tramite Agenzia Fides