IRAQ: Natale in esilio

L’arcivescovo caldeo di Mosul, rifugiato nel Kurdistan iracheno con tutta la sua comunità, racconta la lotta per vivere la fede anche in una situazione di disagio estremo.

«Ci hanno portato via tutto, ma non la nostra fede». È un messaggio chiaro e forte, nonostante la prostrazione e i disagi, quello che risuona insistentemente tra le roulotte dei campi profughi e le strutture prefabbricate tirate su in fretta – per battere sul tempo l’inverno – ad Ankawa. In questo distretto di Erbil a maggioranza cristiana, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno, hanno trovato rifugio centinaia di migliaia di sfollati, fuggiti nei mesi scorsi dal Nord dell’Iraq messo a ferro e fuoco dagli jihadisti del sedicente Stato islamico. Tra di loro ci sono interi villaggi della piana di Ninive e tutta la Chiesa di Mosul, oggi in esilio.
A cominciare dall’arcivescovo caldeo monsignor Emil Shamon Nona, lui stesso pastore profugo, costretto a cercare rifugio insieme ai suoi fedeli nella zona controllata dai curdi. Anche per lui, questo sarà un Natale da fuggitivo, lontano da casa e con nel cuore l’inquietudine di un presente drammatico e un futuro avvolto dall’incertezza. «La nostra è una situazione difficile da descrivere: come può una persona abbandonare da un giorno all’altro tutta la sua storia personale e quella della sua famiglia, tutto ciò che aveva costruito in decenni?», si sfoga l’arcivescovo. Le giornate di monsignor Nona, ormai da mesi, sono scandite dalle visite alle famiglie rifugiate, sparse anche tra vari villaggi nei dintorni di Erbil, alle quali cerca di portare un conforto spirituale e, insieme, tutto il possibile sostegno materiale: «C’è un bisogno enorme di alloggi per questa gente che non ha più nulla», spiega. «Servono vestiti e coperte per proteggersi dal freddo, ma anche cibo e medicine, visto che tante famiglie non hanno un lavoro per sostentarsi. La Chiesa, dopo aver adibito all’accoglienza tutti gli spazi a propria disposizione, ha cercato di affittare case o alberghi e ha approntato campi di roulotte e di prefabbricati». Subito dopo l’assistenza di base, ci si occupa di garantire ai più piccoli la possibilità di non interrompere la loro istruzione: quattro scuole sono in costruzione a Erbil e altrettante a Dohuk, sempre nel Kurdistan.
Per molti sfollati, cristiani ma anche yazidi e kakai, la Chiesa costituisce l’unica fonte di assistenza, anche perché episodi gravi di corruzione tra i funzionari statali hanno messo a rischio l’arrivo dei fondi stanziati per i rifugiati dal governo di Baghdad. Se la precarietà pervade le giornate di tutti questi fuggitivi che vivono con l’incubo della violenza estremista a un tiro di schioppo, per i nazara (cioè i cristiani, i fedeli di Gesù di Nazareth) la fede è vissuta altrettanto quotidianamente. In molti modi diversi. «Ho visto alcuni episodi eclatanti di difesa coraggiosa della propria appartenenza cristiana, ma anche una testimonianza silenziosa e concreta del messaggio di Gesù nelle difficoltà di ogni giorno, nonostante tutto», racconta monsignor Nona. «Per questa gente, davvero la fede è la cosa più importante, e questa è una constatazione che dà speranza».Per questo si fa di tutto per mantenere una certa normalità pastorale, sebbene sia complicato: «Cerchiamo di celebrare la Messa con regolarità anche nei villaggi più lontani e isolati, di portare sostegno spirituale alle persone, incoraggiarle ed esortarle ad avere forza. Qui ad Ankawa organizziamo momenti di preghiera e catechesi». Ogni anno, un festival per i giovani delle Chiese del Nord Iraq veniva organizzato durante l’estate: una tradizione che si è dovuta interrompere per l’avanzata degli jihadisti. «Alla fine abbiamo deciso di recuperare l’appuntamento qui, in esilio, e l’evento ha assunto un significato particolare. È stato anche un modo per aiutare i ragazzi a non cadere nella depressione, a trovare le ragioni di una speranza possibile».Lo stesso spirito con cui si sta ora vivendo l’Avvento. «Ci siamo incontrati con i sacerdoti e le suore, per parlare di come aiutare i nostri fedeli a celebrare il Natale in pienezza». Le funzioni festive, visto il massiccio afflusso di profughi, raddoppieranno rispetto agli anni scorsi. Includendo tutti i riti, a Natale le Messe – che qui si celebrano nella lingua di Gesù, l’aramaico – saranno una cinquantina: si celebrerà nelle chiese, ma anche in strutture approntate per l’emergenza. «E vorremmo che anche i più piccoli possano avere un momento di serenità e gioia: per questo abbiamo stanziato una parte delle donazioni per quindicimila pacchetti dono», racconta monsignor Nona. Soprattutto, però, ciò che i cristiani iracheni desiderano è sentirsi parte di una Chiesa universale che non li dimentica: «In questa crisi, abbiamo sentito i nostri fratelli nella fede molto vicini: hanno dimostrato prossimità con le parole, la preghiera e l’aiuto materiale. Una solidarietà grandissima che non avremmo mai immaginato». A cominciare dal Papa, che non ha perso occasione per esprimere il suo sostegno ai cristiani perseguitati dell’Iraq e anche il desiderio di una presenza fisica in queste terre, non appena sarà possibile. «Ho incontrato personalmente Papa Francesco e quando ho chiesto la sua benedizione mi ha detto: “Ti do la benedizione e anche la mia vicinanza, sono a fianco di voi cristiani dell’Iraq».Un pezzo di Chiesa, quella mediorientale, che vive nella culla della fede cristiana. Ma che, ora, guarda con inquietudine al domani. «C’è molto buio nel nostro futuro», conferma l’arcivescovo di Mosul. «La situazione nella regione pone gravi minacce alla presenza di noi cristiani e purtroppo molte famiglie decidono di emigrare: ogni giorno abbiamo qualcuno che se ne va…». Come invertire questo trend doloroso? «All’Iraq serve prima di tutto democrazia, poi un clima sociale diverso, visto che oggi purtroppo tra le varie etnie e fedi che hanno convissuto per secoli si sono create fratture e diffidenze che devono essere sanate. E, ancora, bisogna risollevare l’economia. Insomma, c’è un’intera società che va riscostruita, e non possiamo farlo da soli: ci serve l’aiuto della comunità internazionale. Ma bisogna fare presto, perché ogni giorno che passa c’è qualcuno che, in Iraq, non si sente più a casa».


“Accogliamo e speriamo”
«Per noi aprire le porte a queste famiglie scappate dalla violenza degli estremisti è come accogliere la famiglia di Nazareth fuggita in Egitto duemila anni fa». A monsignor Bashar Warda il parallelismo viene spontaneo. Come arcivescovo di Erbil dei Caldei è stato in prima fila, con la sua comunità, nell’affrontare l’emergenza della massa di disperati che, in questi mesi, non ha smesso di arrivare da Mosul, Bartella, Qaraqosh e da tutta la zona del nord Iraq finita sotto il controllo dei fondamentalisti sunniti.

Monsignor Warda, la vostra viene spesso definita una “Chiesa nel bisogno”, eppure oggi siete voi a prendervi cura di un popolo intero che ha perso tutto…
«Sì, può sembrare paradossale. Ma queste persone stanno vivendo una tragedia immensa e noi, con tutti i limiti della situazione, ci sentiamo chiamati ad alleviare in parte le loro sofferenze: facendolo, aiutiamo Dio a stabilire il suo regno di pace, misericordia e giustizia. E se è vero che per i profughi non è possibile ora sperimentare la giustizia, almeno potranno sentire attraverso di noi affetto e vicinanza, umana e spirituale».

Chi vi sta aiutando?
«Abbiamo ricevuto un supporto fondamentale dalle organizzazioni straniere e dalle Chiese occidentali, che ci hanno inviato aiuti materiali. Ma non dobbiamo dimenticare il contributo vitale di moltissimi volontari iracheni: suore, sacerdoti, giovani, che sono venuti di persona a dare una mano».

Anche Natale sarà “in emergenza”: come vi state preparando?
«Abbiamo iniziato in anticipo a programmare le varie celebrazioni, per preparare gli spazi necessari. Oltre alle chiese, infatti, avremo bisogno di terreni accessibili: stiamo affittando lotti e approntando grandi tende, mentre dal punto di vista della sicurezza qui in Kurdistan ci sentiamo sereni».

Quale messaggio vorreste mandare ai cristiani europei?
«Di pregare per noi, e sappiamo che già lo fanno. E poi qualunque piccolo gesto di vicinanza per noi è importante. Ricordo che all’inizio degli anni Novanta, quando qui in Iraq soffrivamo le conseguenze dell’embargo, a Natale dall’Italia ricevemmo dei panettoni: può sembrare una cosa marginale, ma per noi fu un gesto molto bello perché ci permise di vivere un momento di festa. Ecco: sentire che vi ricordate di noi ci dà conforto. In quest’ottica, se prima o poi si verificheranno le condizioni perché il Papa venga a farci visita, per noi sarà una gioia enorme. La sua presenza, infatti, sarebbe di per sé un messaggio: “Siete perseguitati, ma non dimenticati”».

Quale pensa che sarà il futuro per i cristiani in Iraq?
«Naturalmente siamo preoccupati per il precipitare della situazione, e non possiamo evitare l’emigrazione delle famiglie, ma io sono certo che una comunità cristiana qui resterà, non lasceremo che cancellino la nostra presenza. La chiave per il futuro dell’Iraq è l’istruzione: dobbiamo potenziare le nostre scuole e promuovere il mix etnico e religioso. La violenza e il fondamentalismo a cui assistiamo sono conseguenza dell’ignoranza. Per questo considero molto importante la scelta della Conferenza episcopale italiana di finanziare la costruzione di un’università cattolica qui a Erbil: si tratterà di un contributo efficace per la costruzione di un futuro di pace per il nostro Paese».

Articolo tratto dal sito di “Mondo e Missione” datato 1/12/2014 e redatto da Chiara Zappa