Il Questuante…
L’umiliazione è imputata come colpa non a coloro che la subiscono, ma a coloro che la fanno subire.
Così diceva san Francesco nella sua prima regola, riguardo ai frati che chiedono l’elemosina, nel caso in cui coloro a cui chiedono, li facessero vergognare del loro stato di questuanti. Certo, chiedere l’elemosina a quei tempi doveva essere un mezzo di sostentamento per i frati quando, avendo lavorato presso terzi e vedendosi negata la giusta ricompensa (per esempio, se non venivano pagati da qualcuno che voleva profittare della loro semplicità), potevano ricorrere alla “mensa del Signore”. Quindi non un chiedere come dei fannulloni o dei parassiti, ma un modo alternativo per rivendicare i propri diritti. Normalmente ci si sarebbe aspettati che, una volta che hai lavorato per qualcuno, e questi non ti retribuisce come convenuto, bisognerebbe ricorrere alla legge per avere giustizia… ma evidentemente per Francesco questo modo di fare significava entrare in quei circuiti di violenza, far valere la forza della legge, che poi magari innescano altra violenza, così lontana dalla mentalità del poverello.
E allora, in un’ottica di fede, Francesco preferisce rivolgersi al Giusto Giudice, a colui che presiede a una giustizia più alta, a volte trascurata dagli uomini, che non è soltanto retributiva, ma è soprattutto amore, misericordia o, se meglio vogliamo dire, è il suo piano di salvezza per il mondo che ha una logica divina che è appunto giustizia nella quale tutti siamo chiamati ad entrare.
E allora capiamo che l’amore ancora una volta si coniuga con la responsabilità: l’amore di Dio non è un accontentare i capricci dei propri figli, ma obbedienza ai Suoi disegni, affidarsi a Lui, che è Provvidenza, senza abusarne, convinti che in fondo ciò che chiediamo non è altro che il pane quotidiano, frutto del nostro lavoro, ciò che Lui stesso ha pensato per noi per ogni nostro giorno e che per questo possiamo chiedere con fiducia alla sua mensa.
Al mercato un giorno un uomo sulla sessantina mi ha fermato dicendomi che aveva bisogno di 1.000 franchi per pagarsi il taxi. Di fronte alla mia titubanza, lui mi dice che aveva fatto le pulizie in una moschea ma alla fine i responsabili del luogo gli hanno dato soltanto un po’ di riso. Il suo problema è che – essendo disabile – ha anche bisogno di spostarsi per andare a casa e si aspettava almeno un po’ di soldi per pagarsi il trasporto. Certo, gli dico, hai ragione, ma tu non hai lavorato per me: come mai vuoi che sia io a pagare il lavoro che hai fatto per gli altri? E lui mi dice: ma perché sono cristiano e tu sei un prete, credo che almeno tu possa capirmi.
Probabilmente quell’uomo non conosceva la prima regola di san Francesco, ma il suo modo di argomentare me la ricordava molto da vicino.
Ma se questo non è che uno dei tanti casi invisibili d’ingiustizia, perso nel caos quotidiano della città, penso a quanti altri, in tutto il mondo, ogni giorno si consumano nel dolore muto, nel grido inascoltato, nell’appello se non alla giustizia, almeno alla solidarietà. E di esempi ce ne sarebbero a migliaia.
Certo, san Francesco non stava invitando tutti a lasciar perdere il ricorso alla giustizia umana (necessario e legittimo in uno stato di diritto), quell’invito era rivolto soprattutto e anzi solo ai suoi frati (del resto la Regola è per i frati). La vita di un cristiano impegnato, e quindi di un frate, è una vita spesa per il diritto e la giustizia: pensiamo a quanto per esempio Giovanni Battista e Gesù hanno gridato contro l’ingiustizia e l’ipocrisia di chi era chiamato a gestirla… ma mai hanno preteso o chiesto giustizia per se stessi.
È come dire che se vuoi veramente batterti per i diritti degli altri, devi accettare di rinunciare ai tuoi. Del resto, un cristiano, o un uomo di Dio in genere, può dire di avere una carta dei diritti? Se percorriamo la Bibbia dall’inizio alla fine, non troviamo che doveri. Dio si rivolge agli uomini con degli imperativi che indicano cose da fare, atteggiamenti da assumere. I dieci comandamenti si presentano come il frutto maturo di tutta una prima esperienza del popolo di Dio con Lui e tra loro. Ma giustamente essi sono deicomandamenti, e dunque dei doveri. Dei doveri per un popolo, servo di Dio, che ha una missione, quella di mostrare la Sua presenza e la Sua signoria e dunque la Sua giustizia.
In seguito il Deuteronomio (alla lettera, appunto: la seconda legge) non è che uno scendere nei dettagli della vita sociale imponendo altri obblighi.
Gesù arriva alla fine dei tempi e afferma di non essere venuto ad abolire la Legge e in più “vi do un comandamento nuovo”…
Forse che non chiede a chi vuole seguirlo (= essere suoi discepoli) di rinunciare a se stessi? E se rinunci a te stesso come puoi ancora parlare di tuoi diritti, tuoi bisogni ecc.?
Impegnarsi per la giustizia richiede sacrificare la propria causa, accettare su di sé le ingiustizie, caricarsi di una croce che è il frutto dell’impegno per la liberazione e la difesa degli altri. Ma la croce non è mai l’ultima parola: l’ultima parola è la vita eterna. Vivere per gli altri ci carica di una croce, ma ci permette la salvezza, e questa è la porta stretta del Vangelo. In alternativa possiamo scegliere di vivere per noi stessi (la porta larga), cercando di far rispettare i nostri diritti, spesso (e comunque) a scapito di quelli degli altri. Ma lì avremo già avuto la nostra ricompensa.
Francesco ci invita (a noi, i suoi frati, ma, se vogliamo, per coerenza ad ogni cristiano), ad entrare nella logica di Dio. Senza avere timore delle conseguenze delle logiche umane perché presso Dio le cose spesso funzionano esattamente al contrario. Provare vergogna per chiedere l’elemosina è possibile se siamo convinti di chiedere qualcosa che non mi appartiene, ma chiedere sapendo che è il pane quotidiano che il Padre mi dà per il lavoro che ho fatto, fa assumere al tutto un altro colore. Così rinunciare alla propria giustizia: senza che sia per mancanza di coraggio o di mezzi, se lo facciamo perché crediamo in una giustizia più grande – e perché no? – più efficace, anche lì le cose cambiano. E di molto.
Se poi chiedere l’elemosina non è per noi ma per i più poveri, allora possiamo avere il volto sereno, come quel santo, che un giorno chiedeva l’elemosina di porta in porta per i bambini di cui aveva cura.
Un uomo gli aprì e di fronte alla sua richiesta di carità, per tutta risposta, gli sputò in faccia. Il santo, senza scomporsi, si asciugò il volto e rispose: ti ringrazio, questo era per me, ora potresti darmi qualcosa per i miei piccoli? L’altro a questo esempio si convertì e divenne il suo più stretto collaboratore in questa ricerca di cibo per chi non aveva ancora i mezzi per farlo da solo.
Quando, a tavola con i ragazzi, abbiamo finito di mangiare diciamo una preghiera, in questo modo: chi comincia la preghiera dice: “Tozwi na maboko ma yo, Mokonzi!” e tutti gli altri rispondono: “Na maboko ma biso, pesa na bato oyo bazosenga yo!” che, tradotto, vuol dire: “Abbiamo ricevuto dalle Tue mani, Signore!” “Con le nostre mani, dai a tutti coloro che chiedono a Te!”.
La giustizia di Dio chiede responsabilità e coraggio per mettersi a servizio degli altri, senza vergogna, sapendo in questo modo di lavorare con Lui, anzi di lasciare che Lui possa operare attraverso di noi.
fra Adolfo