Oranti tra altri oranti

In uno dei primi incontri avuti in Marocco, mi colpì particolarmente un frate che parlava della missione tra i musulmani usando l’icona della visitazione. Due religioni e due culture che si incontrano, come Maria ed Elisabetta, diverse ma con qualcosa da condividere. Maria arriva da sua cugina carica di Spirito Santo, con Gesù in grembo, eppure ha bisogno dell’altro, Elisabetta, per proclamare il Magnificat, la lode a Dio. Le due donne rimangono le stesse, Maria ed Elisabetta, ma notevolmente arricchite e consapevoli di ciò che custodiscono.
Così dinanzi all’islam, ho capito che era necessario cambiare del tutto lo sguardo: non cercare di collocarlo in chissà quale teologia, ma partire dal dato di fatto che c’è…e la cosa più importante è scoprire come lo Spirito mi tocca tramite loro.
Ed ora, a più di un anno da questa esperienza di missione in Marocco, mi rendo conto di come la Chiesa oggi, sia in strada, per andare verso l’altro, chiunque sia…custode anche lui di un mistero.
Certo, guardare oggi il telegiornale che ci parla delle guerre in Iraq, Palestina, di Boko Haram, dell’Isis…non vediamo altro che violenza nel mondo musulmano…ma non è questo l’Islam che ho conosciuto.
Come frati vivevamo inseriti tra la gente del luogo, ci si prendeva cura della comunità cristiana, piccola e sparsa in un grande territorio, davamo lezioni di lingue insieme ad amici volontari, ovviamente tutti musulmani…c’era il servizio all’ospedale, si aiutavano le persone povere della città…in fin dei conti si viveva a stretto contatto con la gente, condividendo le feste, la vita quotidiana…lasciando al tempo di far crescere il rispetto reciproco, stima e  amicizia.
Ora, pensando ai ricordi più significativi della missione, la mente va subito alla preghiera: ogni attimo passato davanti al tabernacolo acquistava un valore immenso. Invocare Gesù figlio di Dio mentre fuori la gente prega Allah, stabiliva una comunione incredibile, strana ma tangibile. Ci si sentiva fratelli! E sembra assurdo…però, in quei momenti quando noi pregavamo e fuori il muezzim cantava l’appello alla preghiera, pareva che le barriere si abbassassero: tutti dinanzi ad un Dio a lodarlo, a ringraziarlo, a supplicarlo…e loro, i musulmani, apprezzavano tanto il nostro tempo dedicato alla preghiera, come diceva Christian de Chergè, essere degli “oranti tra altri oranti”.
Ed io restavo stupito nel vedere come la parola di Dio (detta all’altro) aveva davvero poco spazio, eppure la vita dei frati non taceva mai: essa diventava lo strumento più prezioso per parlare di Cristo.
Dare la possibilità a Dio di incarnarsi, per mezzo di noi, in questa terra musulmana cambia la storia di ogni giorno.
Ed era meraviglioso scoprire che attraverso l’altro conoscevo di più me stesso, senza distruggere la fede di chi mi stava dinanzi ne eliminando la mia, ma lasciando lo Spirito lavorare. E’ il gioco della diversità, di cui parla tanto Christian de Chergé, con il quale “Dio si diverte per creare l’unità”.
Cosi’ mi son trovato ha fare un grande sforzo per accogliere il musulmano, non solo come uomo ma anche come credente. Ed è proprio là che è iniziata la missione, con l’accettare quello che mi proponeva Dio e nel lasciare il mio immaginario di missione.
Concludo con ciò che diceva don Andrea Santoro, in una delle sue ultime lettere, spiegando cosa significa per un cristiano vivere in terra d’islam: “qui siamo ancora più piccoli del più piccolo dei semi, ma l’importante è stare dentro la terra, con amore, con rispetto, sciogliendosi e diventando un tutt’uno con essa nel silenzio, disposti a morire e a fiorire quando Dio vuole, sentendo che quella terra è stata amata, lavorata da Dio, visitata e vangata in mille modi”…

fra Andrea Raponi