I tesori che mi ha lasciato Gerusalemme

Mi chiamo Sara, ho 26 anni. Ad aprile sono andata in pellegrinaggio in Terra Santa un gruppo di altri ragazzi dai 20 ai 33 anni, accompagnati dai frati del SOG. Scrivo qui la mia testimonianza.
Se salissimo su una torre per vedere dall’alto una delle nostre città italiane, sotto i nostri occhi capiterà di ammirare una distesa di case, tra cui spuntano cupole di cattedrali e campanili, sullo sfondo il mare o le montagne. Sono paesaggi che noi ci aspettiamo di vedere. Ci stupiscono, perché sono belli, ma non sempre ci sorprendono perché fanno parte della nostra cultura, del nostro modo di vedere la realtà. Dopo che li abbiamo osservati, scendiamo dalla torre e siamo come prima; quello che abbiamo visto non ha aggiunto niente di nuovo.
Quando da Gerico sono salita a Gerusalemme e mi sono fermata su uno spiazzo a contemplarla dall’alto, invece, mi è venuta subito incontro una novità, un posto mai visto, altro, diverso. Splendido e contraddittorio insieme: la cupola dorata della moschea di Omar, il tempio, le cupole tonde del Santo Sepolcro, la valle del Cedron attraversata dai sepolcri bianchi, ulivi, una cinta di mura e di porte. Una bellezza che io mai sarei riuscita a immaginare da sola. Quando mi capita qualcosa di assolutamente nuovo, che non posso ridurre ai miei schemi, mi sento sempre stupita e conquistata. Anche se non capisco tutto ciò che accade, vorrei rimanere lì, perché mi provoca e mi ferisce e perché sento che vuole dire qualcosa alla mia vita proprio perché è nuovo.
Gerusalemme e tutta la Terra Santa per me sono state così: una bellissima e unica contraddizione e provocazione che non sarei mai riuscita ad aspettarmi, ma che non riuscirò mai (e spero di non riuscirci mai) a cancellare dal mio cuore; luoghi dove tutto (un paesaggio, le persone che incontri, le cose che tocchi, i cibi che mangi, le strade che percorri) è richiamo al cuore, dove tutto ti investe e fa nascere tantissime domande. Una ferita dolce che mi è rimasta nel cuore.
Il viaggio in Terra Santa non può lasciare indifferenti: i primi giorni di pellegrinaggio io parlavo pochissimo perché ero così emozionata e curiosa che volevo trattenere tutto dentro di me. Anche adesso sono in difficoltà a scrivere perché vorrei dire tantissime cose, ma devo contenermi.
Allora ho pensato di raccontare tre tesori che mi hanno consegnato i popoli che ho incontrato lì: il popolo ebraico, il popolo palestinese e i cristiani di Terra Santa.
foto 1Il popolo ebraico mi ha consegnato, senza ombra di dubbio, il desiderio di essere una persona che attende. Il desiderio di vivere nell’attesa.
Uno dei posti che più mi ha colpita di Gerusalemme è stato il muro del pianto: quando, nel settore dedicato alle donne, mi sono trovata davanti a tante giovani e anziane che piangevano lamentandosi con il viso rivolto a un muro, ho provato un grande fastidio. Il mio primo pensiero è stato subito quello di fare un paragone tra me e loro: per me Dio è presente, per loro è assente. Mi sono sentita molto a disagio davanti a quei lamenti, perché mi sembrava di essere davanti ad una grande assenza, ad un vuoto. Quando esci dall’area dedicata alla preghiera, ti viene chiesto, per rispetto, di non voltare le spalle al muro. Ho fatto quasi malvolentieri questo gesto perché lo ritenevo privo di significato: perché non voltare le spalle a un muro di pietra?
Tornando in albergo ho parlato con un frate della Custodia di Terra Santa, padre Matteo, dicendogli che mi sentivo desolata da quella sera e che per me quello era il luogo dell’assenza di Dio. Padre Matteo mi ha spiazzata rispondendomi che, invece, quello è il luogo dell’attesa di Dio. Il muro è tutto ciò che rimane dell’antico tempio, distrutto dai Romani. È l’unico segno rimasto al popolo ebraico del posto dove Dio abitava. Perciò lì si piange e si supplica: perché Dio lì è vicino e lo si aspetta. Il giorno di sabato è tutto intriso di questo senso di attesa: Padre Frederic Manns ci ha spiegato che è il giorno in cui si attende lo Sposo. Sono rimasta molto colpita da questo modo che gli Ebrei hanno di aspettare Dio: si piange perché l’Amato manca, ma si è certi che arriverà. Questo aiuta me a vivere perché, in fondo, io quando apro gli occhi al mattino cosa voglio? Che Lui venga a dare senso e pienezza alla mia giornata. Che bello vivere aspettando, desiderando la presenza di Gesù che venga a colmare la mia attesa. Ho scoperto che la preghiera ha lo stesso significato sia per me sia per quelle donne che piangevano al muro: vieni Tu ad aiutarmi. “Alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto?”, dice il Salmo 121 che proprio il popolo ebraico ci ha tramandato.
Il popolo palestinese mi ha fatto pensare a quante cose do per scontate nella mia vita, a quanto poco ringrazio e a quanto di me io posso condividere per seminare del bene: in particolare non penso mai al fatto che io vivo da 26 anni in un mondo che è libero e in pace. Vedere il muro che divide Betlemme da Gerusalemme (e ascoltare tutte le terribili conseguenze legate alla presenza di questa barriera), le case che i coloni costruiscono sulle terre palestinesi, osservare la povertà di Cana, di Gerico a due passi dalla ricchezza degli stabilimenti balneari sul Mar Morto mi ha spiazzata. Mi sono detta: pensa a questo popolo e a come vive! E poi subito mi sono chiesta quello che ogni cuore si chiede davanti ad un’ingiustizia cioè: cosa posso fare io davanti a questo male? Questa domanda mi ha aiutata a riflettere sul fatto che il male, la divisione, lo si può arginare con piccoli gesti di bene e di unione: alcuni li si vede già in Terra Santa. Che bello vedere che i frati accolgono nelle loro scuole bambini musulmani o vedere un sacerdote ortodosso che a Tabgha ha abbracciato i nostri frati. Tante altre azioni le posso fare io in prima persona: tornata a casa ho raccontato a molti amici di questo pellegrinaggio e loro sono rimasti colpiti dalla situazione della Terra Santa. È nato tra un gruppo di noi uno spontaneo desiderio di fare una colletta mensile per aiutare la Custodia. Spesso ancora mi capita di chiedermi: quanti muri metto io davanti a una persona? Quanti ne ho messi durante quel pellegrinaggio quando, nel caos di Gerusalemme, scorgevo qualcuno diverso da me? Quanto mi rende libera scavalcare un muro piuttosto che erigerlo! Il custode di Terra Santa, Padre Pierbattista Pizzaballa, in un’intervista che ha rilasciato ad agosto, diceva: “Il vicino che in tanta morte fa un gesto di amicizia, ti dona la vita!”.
Infine il popolo dei cristiani di Terra Santa: vorrei dire tantissime cose sugli incontri che abbiamo avuto con loro durante il pellegrinaggio. Ne dico una: penso che loro mi abbiano lasciato la speranza. La certezza che Gesù non ti frega, ma che anche nel contesto più ostile possibile, Lui è con te e ti accompagna, che se Lui c’è si è uniti e si può mandare avanti anche la chiesa più piccola. A Cana abbiamo conosciuto Speranza, una ragazza che lavorava con la sua famiglia in un minuscolo negozio e che ora è in Italia a studiare; a Betlemme abbiamo incontrato un frate palestinese, Padre Badia, e un gruppo di giovani che segue e abbiamo anche conosciuto dei cristiani del luogo, per esempio Roni, un negoziante molto ospitale e simpatico. Nonostante queste persone vivano in povertà, molti di loro confinati dal muro e impossibilitati ad andare a Gerusalemme, in un contesto per lo più musulmano, a stretto contatto con altri cristiani (greci, ortodossi, armeni, etiopi) con i quali la convivenza non è spesso facilissima, non credo di aver mai visto la tristezza sui loro visi. Anzi: solo la gioia di vivere in quella terra e tanta speranza in Dio. Molti di loro ci hanno detto che, anche se andranno via per studiare, poi il loro desiderio è ritornare nella loro terra perché: “qui siamo le radici della cristianità”. Basta guardarli in viso per desiderare di essere cristiani così: luminosi portatori di Gesù nel nostro ambiente. Ecco: vederli mi ha fatto pensare che essere Chiesa VIVA vuol dire che se io ho fatto davvero un incontro con l’amore di Gesù, anche solo il mio viso dovrebbe testimoniare questa gioia. La stessa gioia che ho visto sul viso dei miei compagni di viaggio a cui mi sono legata tantissimo proprio perché condividiamo tutti il tesoro di questo incontro con Gesù nella nostra vita. Mi sono scoperta a desiderare di avere sempre nei miei occhi la luce di questo incontro: basta più di tante parole.
Penso che i luoghi santi siano vivi e ancora più veri perché ci sono ancora i cristiani: loro portano adesso in Terra Santa quello che c’è stato duemila anni fa. Loro sono Gesù vivo lì, adesso. Diversi da tutti, portano amore in una terra di contraddizione.
Desidero custodire per sempre nel mio cuore gli incontri con questi tre popoli e che tutto quello che ho visto in Terra Santa continui a cambiare il mio cuore, le mie azioni, il mio modo di entrare in rapporto con Dio e con gli altri.
Gerusalemme ferisce, fa desiderare di cambiare perché mi ricorda la bellezza della promessa che Gesù mi fa ogni giorno, la vita eterna nella Gerusalemme del cielo.