I martiri del Messico del Novecento, modello di fede per i giovani di oggi
Pochi sanno che in Messico, agli inizi del XX secolo, si è perpetrata una persecuzione terribile contro i cattolici, che è proseguita nel tempo, lasciando effetti duraturi sulla struttura politica e sociale del Messico, ma avendo conseguenze nefaste sull’intera America Latina.
Si trattò di un conflitto scatenato contro una società contadina, tradizionale, cattolica, un’aggressione perpetrata da uno Stato autoritario uscito da un processo rivoluzionario.
Nel 1917 venne promulgata in Messico una nuova Costituzione, ispirata a principi anticlericali, firmata dal presidente Don Venusiano Carranza. Da essa ebbe origine una fase di violenta persecuzione religiosa. L’episcopato messicano espresse la sua contrarietà alla nuova legge fondamentale della nazione, provocando però in tal modo una forte reazione da parte governativa. Dal 1926 in avanti, sotto la presidenza di Don Plutarco Elìas Calles, la persecuzione si fece ancor più violenta con l’espulsione dei sacerdoti stranieri, la chiusura delle scuole private e di alcune opere benefiche. I laici messicani costituirono un’organizzazione denominata Lega in Difesa della Libertà Religiosa, che proclamò: «Deploriamo la guerra, ma la nostra dignità oltraggiata e la nostra fede perseguitata ci obbliga a correre per difenderci sullo stesso campo su cui si sviluppa l’attacco». Il popolo non poté resistere alle privazioni religiose che il boicottaggio portava, cosicché decise di difendere la propria libertà religiosa e insorse in armi contro il governo massonico e anticlericale del presidente Plutarco Elías Calles, senza il diretto intervento del clero, per mezzo delle armi. Ebbe così inizio la guerra civile, meglio conosciuta in Messico come «Movimiento cristero». Questo movimento non fu dunque promosso dalla gerarchia ecclesiastica, bensì dal mondo laicale, che cercò comunque l’appoggio dei propri pastori, anche se generalmente il clero accettò di sostenere esclusivamente la resistenza pacifica.
La rivolta dei Cristeros, chiamata anche guerra Cristera o Cristiada, proseguì fino al 1929. Il nome Cristeros, contrazione di Cristos Reyes, fu dato spregiativamente dai governativi ai ribelli, a motivo del loro grido di battaglia: «¡Viva Cristo Rey!» (Viva Cristo Re!).
Giovanni Paolo II ha canonizzato 25 martiri messicani il 21 maggio 2000, mentre altre 14 vittime della medesima persecuzione sono state beatificate tra il 1988 ed il 2005 nel corso di tre cerimonie. Infine per altri 7 Servi di Dio è ancora in corso il processo per il riconoscimento del loro martirio.
Questi martiri sono stati uomini e donne che testimoniarono con coraggio la loro fede contro un Governo che nella propria Costituzione affermava che «L’esistenza di qualsiasi ordine e congregazione religiosa resta proibito» (art. 5); inoltre: «ogni culto è proibito fuori delle chiese, e nelle chiese il culto sarà sempre sottomesso all’ispezione dell’autorità civile» (art. 24); «le chiese sono proprietà dello Stato. Tutte le associazioni religiose sono incapaci di acquistare, possedere o amministrare beni immobili».
L’epopea della Cristiada annovera come suoi protomartiri Joaquim Silva e Manuel Melgarejo, il primo di 27 anni, il secondo di soli 17, entrambi militanti della Gioventù cattolica. Dopo il provvedimento della sospensione del culto pubblico voluto dai vescovi messicani per protestare contro le misure del governo, Silva aveva cominciato, insieme all’amico, a percorrere il Paese e a tenere conferenze nelle quali, grazie ad una solida cultura, una fede appassionata e una concezione della vita come milizia, sapeva accendere gli animi dell’uditorio e spronarlo alla lotta. Domenica 12 settembre 1925, mentre si dirigevano in treno a Zamora per tenervi uno di questi incontri, vennero arrestati e condannati a morte senza essere neppure processati. Silva chiese che l’amico minorenne fosse risparmiato, ma non fu ascoltato. Vennero così condotti di fronte ad un plotone d’esecuzione, fu loro strappato di mano il Rosario. Joaquim Silva tenne un discorso intenso e profondo, sia sui valori religiosi che patriottici che persino i soldati schierati per ucciderlo ne rimasero commossi e uno di loro si rifiutò di prender parte all’esecuzione, subendo quindi l’arresto e l’esecuzione capitale il giorno dopo. Con coraggio Joaquim dichiarò al comandante: «Non siamo dei criminali, né abbiamo paura della morte. lo stesso vi darò il segnale di sparare, quando griderò viva Cristo Re, viva la Vergine di Guadalupe». Infatti al suo grido, unito a quello di Manuel, i colpi mortali partirono dai fucili.
I corpi dei due eroi furono esposti più tardi nel cimitero: stringevano ancora tra le mani i rosari, e furono rivestiti di bianche vesti, dopo che i loro abiti insanguinati erano stati divisi in frammenti, come reliquie, tra i fedeli del paese.
Fra i martiri ci furono anche degli amministratori pubblici, come Luis Navarro Origel, il sindaco terziario francescano della città di Peniamo, fondatore nella sua regione di molte realtà, infatti, oltre all’Ordine dei Cavalieri di Colombo, diede vita a società di mutuo soccorso, casse rurali, sezioni della Gioventù Cattolica, circoli culturali, scuole di catechismo. Inoltre fu propagatore instancabile dell’adorazione eucaristica notturna.
Ricordiamo ancora la bella figura di Tomàs de la Mora, di Colima, un ragazzo di soli sedici anni, uno dei più attivi membri del locale Circolo Cattolico, che svolgeva l’attività di catechista tra i bambini più poveri. Il 15 agosto 1927 fu arrestato perché indossava uno scapolare della confraternita religiosa a cui apparteneva. Il comandante della caserma gli domandò se avesse rapporti con «i fanatici», ma egli rispose: «Non fanatici, ma liberatori della Chiesa e della Patria dai tiranni». Tomàs fu allora frustato, affinché fornisse informazioni sui ribelli, ma fu tutto inutile. Venne impiccato all’Albero della libertà che era stato eretto, tragico retaggio della Rivoluzione Francese, nella piazza principale della città.
Un esempio di eroismo femminile è quello di Eleonora Garduno. Interrogata dal generale Ortiz, uno dei principali collaboratori di Calles, che aveva per motto «Il mio dio è il diavolo» (diavolo che portava tatuato sul petto), ricevette dal militare l’offerta della scarcerazione, in cambio della sua collaborazione. La ragazza non accettò e venne condotta davanti al plotone d’esecuzione. Mentre, quando portarono alla moglie dell’avvocato Gonzales, una delle guide dell’insurrezione, il cadavere straziato del marito, la donna chiamò vicino i figli e disse: «Guardatelo, è vostro padre. È un martire della Fede. Promettetegli che anche voi sarete degni figli e continuerete un giorno la sua opera».
Furono centinaia i preti uccisi, parroci di villaggi, seminaristi, monaci. Miguel Augustin Pro, gesuita, di Guadalupe, Padre Elia Nieves, agostiniano il quale, dopo essersi inginocchiato, si rivolse ai soldati del plotone di esecuzione: «In ginocchio, figli miei. Prima di morire voglio darvi la mia benedizione». I soldati obbedirono e si inchinarono riverenti al gesto del sacerdote. Mentre padre Nieves tracciava il segno di croce, l’ufficiale che comandava il picchetto, infuriato, gli sparò al petto, uccidendolo mentre ancora benediva.
Ai sacerdoti che lasciavano in vita venivano sovente loro tagliate le braccia, per impedire che potessero celebrare la Messa. Don Pablo Garcia subì una sorte atroce: parroco zelante, anch’egli sfidava le leggi e ogni pericolo. Volle celebrare con grande solennità la festa nazionale di Nostra Signora di Guadalupe e il 12 dicembre raccolse il suo popolo in un luogo solitario sulla montagna di S. Juan de los Lagos. Scoperto, arrestato, venne orribilmente torturato per giorni. Padre Davide Uribe, annoverato nel gruppo di martiri beatificati da papa Giovanni Paolo II, fu strappato al suo gregge, dopo essere stato rinchiuso in un campo di concentramento. Riuscì tuttavia ad evadere e tornò alla sua parrocchia di Iguala, continuando ad esercitare, in forma clandestina, il suo ministero. Finì per essere nuovamente arrestato. Il generale governativo Castrejon propose ai parrocchiani di riscattare il sacerdote consegnando tremila pesos. Furono raccolti immediatamente, a costo anche di enormi sacrifici, ma il parroco non fu rilasciato: si pretendeva da lui un pubblico atto di apostasia e di adesione alla scismatica chiesa patriottica. Pabre Uribe, che nutriva una grande devozione per il Papa, rifiutò decisamente e fu allora sottoposto a lunghe torture, tra le quali il supplizio della graticola. La Domenica delle Palme del 1927 spirò dopo i terribili tormenti. Le sue ultime parole furono: «la morte piuttosto che rinnegare il Vicario di Cristo, io amo il Papa! Viva il Papa!».
L’ultimo, ma sicuramente non meno importante, merita un particolare riguardo, poiché fu il più piccolo dei martiri messicani: a soli 14 anni si lasciò uccidere per amore di Cristo Re, subendo un’atroce tortura. Questo bambino, colmo di coraggio dalla punta dei piedi sino ai capelli, si chiamava Josè Luis Sanchez del Rio. Josè nacque nel 1913 nel piccolo villaggio di Sahunayo. Un giorno, dopo aver visitato la tomba di alcuni martiri messicani morti nella Cristera, ammirato per il loro coraggio nel morire per gloria di Cristo Re, pregò Dio affinché potesse morire martire per Lui. Questa preghiera fu accolta dal Signore, il quale non tardò a concedergli questa grande grazia. Nell’agosto del 1926, Josè chiese alla mamma di potersi arruolare tra l’esercito cristero, giustificando questo suo desiderio dicendo: “Mamma, non è mai stato tanto facile guadagnarsi il Cielo come in questo momento! Non voglio perdere quest’occasione”. Sentendo ciò, la mamma concesse a Josè di arruolarsi.
Entrato tra i cristeros, Josè fu ammirato da tutti e ben presto fu soprannominato Tarcisio, come il giovinetto romano che, nel 275, fu ucciso dai suoi coetanei perché preferì portare l’Eucarestia ai cristiani imprigionati che giocare con loro. Durante uno scontro Josè, insieme ad altri cristeros, fu imprigionato dall’Esercito Federale in una chiesa. Da qui scrisse una lettera alla madre: “Cara mamma, sono caduto prigioniero durante il combattimento di oggi. Credo che sarò fucilato, ma non importa: devi rassegnarti alla volontà di Dio. […] Io sono felice. L’unica cosa che mi tormenta è il tuo pianto. Non piangere, mamma. Noi ci rivedremo. Firmato: Josè, morto per Cristo Re!”. La chiesa, nella quale era stato imprigionato Josè, era stata adibita a pollaio e l’altare a sala da pranzo. Dopo pochi giorni di prigionia, Josè fu portato in un sotterraneo della chiesa e qui, l’odio incondizionato dei nemici della Chiesa fu tale che, con una lama affilata ed appuntita, gli furono scuoiate le piante di entrambi i piedi. Molte volte, durante quest’atto, gli venne chiesto di salvarsi dicendo “Muoia Cristo Re”, ma egli, piangendo e lamentandosi dal dolore, rifiutava e gridava a squarciagola il motto dei cristeros, unito alla straziante supplica “Jesùs dame fuerza”.
Ultimata quest’atroce tortura, Josè fu costretto a camminare a piedi nudi, tra sabbia, terra e pietre, che si conficcavano nella pelle scuoiata, fino al cimitero dove, posto dinanzi alla fossa che sarebbe divenuta la sua tomba, gli fu chiesto in tono di scherno se desiderava dire qualcosa a sua mamma lì presente; lui, sereno, disse: “Mamma, ti voglio bene. Salutami papà. Ci rivedremo in Cielo”. Detto ciò, venne pugnalato sotto le ascelle e alla schiena. Accasciatosi a terra Josè, sentendo l’ora della nascita al Cielo avvicinarsi, raccolse un po’ del suo sangue e, tracciando con esso una croce a terra, si prostrò con il capo in atto di adorazione e disse: “Sto andando a casa”. Il comandante, irritato e disgustato dalla scena, gli sparò alla tempia. Era il 10 febbraio 1928.