GPIC: Non c’è pace nelle banche
Articolo tratto da “Nigrizia”, di Gianni Ballarini
Hanno lavorato per anni. In silenzio. Alacremente. Cercando, talvolta, persino il coinvolgimento del mondo pacifista, che ritiene la legge 185 del 1990, che regola il controllo dell’esportazione, importazione e del transito dei materiali di armamento, un totem inscalfibile.
Alla fine, invece, i lobbisti e i funzionari in doppiopetto del mondo “armato” sono riusciti a intaccarla. Pezzo dopo pezzo. E oggi la legge che regola la trasparenza e il controllo sul commercio italiano di materiali d’armamento è un po’ più opaca che in passato. Ha allentato la presa sui controlli. Picchetta un po’ meno. Soprattutto quando s’inerpica nel regolamentare i rapporti tra finanza e armi. Tra banche e industria armiera….Ed ora se ne vedono i frutti.
LE NOVITA’. Ma, in concreto, cosa è cambiato? Con la riscrittura dell’articolo 27, le banche non sono più obbligate a chiedere l’autorizzazione del ministero dell’economia e delle finanze per i trasferimenti bancari collegati a operazioni in tema di armamenti. Ora basta una semplice comunicazione via web delle transazioni effettuate. Certo, potrebbero esserci controlli successivi con l’irrogazione di sanzioni amministrative per gli istituti inadempienti.
Si intuisce, tuttavia, che la rivoluzione copernicana apportata (da un’impostazione concentrata sulle verifiche ex ante della documentazione si passa a una ex post) sburocratizzerà e snellirà le procedure (come vuole l’Ue), ma ha allentato la morsa dei controlli, col rischio di rendere meno trasparente tutto un settore fatto di relazioni assai delicate.
Negli anni l’industria armiera e i suoi aedi hanno cercato di eliminare quell’ostacolo ingombrante, denunciando «l’atteggiamento demagogico delle cosiddette banche etiche». E gli istituti che si dotarono di codici di autoregolamentazione furono accusati di «eccessi di etica pacifista» e di disertare la difesa del paese. Chi salvaguardava l’impianto rigoroso della 185 fu tacciato di «atteggiamenti talebani» e i sostenitori della “Campagna Banche armate” furono incolpati di «criminalizzare l’industria della difesa e le banche che intrattengono rapporti d’affari con le imprese del settore».
Oggi il clima è cambiato. E il vento spira forte a sostegno di chi vuole meno controlli e più libertà di concludere affari armati. Gli stessi gruppi bancari, che in passato dimostrarono sensibilità e attenzione ai temi etici legati a questo particolare commercio, oggi si rituffano senza problemi in operazioni di appoggio all’export.
I DATI. Lo si vede leggendo le tabelle “Banche armate” e i dati pubblicati nell’ultima Relazione governativa sull’esportazione importazione e transito dei materiali di armamento, riferita all’anno 2013 (relazione). Essendo diventato operativo dal 19 marzo 2013 il nuovo articolo 27 della 185, si nota che fino al 18 marzo sono ancora segnalati gli importi autorizzati alle banche. Dal 19 marzo sono indicati solo gli importi segnalati. Quindi, è azzardato fare confronti omogenei con i dati e le tabelle degli anni scorsi.
Indicativamente, si può dire che in riferimento all’esportazione definitiva, il totale complessivo delle segnalazioni di operazioni bancarie effettuate nel 2013 ammonta a quasi 2,9 miliardi di euro. Nella Relazione 2013, riferita all’anno 2012, gli importi segnalati erano poco superiori ai 2,1 miliardi, mentre il valore degli importi autorizzati erano di 2,7 miliardi di euro.
Al di là della comparabilità dei dati, si conferma tuttavia un trend che vede la disponibilità delle banche a mettere a disposizione i loro servizi e conti correnti per l’accreditamento del denaro che i clienti incassano vendendo armi all’estero. La parte del leone, come spesso è successo negli ultimi anni, la fanno tre gruppi: Deutsche Bank, con oltre un miliardo di euro di importi segnalati, seguita da Unicredit con 508,2 milioni e il Gruppo Bnp Paribas con 407,5 milioni. Insieme controllano il 72,5% delle transazioni. Sorprende il dato della banca d’affari francese Natixis, che si colloca al quarto posto con 213,3 milioni di euro. Si riaffaccia una banca che aveva giurato di volersene uscire da questo business. Si tratta di Intesa San Paolo, che nel 2013 ha segnalato al Mef operazioni per quasi 42 milioni di euro. Un capitoletto a parte meriterebbero proprio quegli istituti che avevano emesso direttive per regolamentare questo settore. Alcuni, come appunto il gruppo di Torino o la Banca popolare di Milano, avevano deciso di sospendere definitivamente tutte le operazioni di servizi all’export di armi. Altri, come il gruppo Unicredit o Ubi Banca, avevano posto paletti e vincoli “etici” alle eventuali operazioni. Vincoli che sembrano diventati carta straccia.
Molte le piccole banche presenti nella lista, capitanate dall’intramontabile Banca Valsabbina.
Si confermano, quindi, tempi duri per i “risparmiatori pacifici”. Non solo per la crisi economica che sta spolpando le nostre scelte “etiche”. Ma perché è sempre più complicato ricostruire nel dettaglio il coinvolgimento delle banche negli affari armati.
Già nel 2008 era stata tolta dalla Relazione la sezione che riportava le singole operazione autorizzate e svolte dagli istituti di credito, dati utili per conoscere i dettagli delle movimentazioni e delle transazioni. Ora, poi, hanno perfino eliminato la “scocciatura” delle autorizzazioni, indispensabile strumento di verifica e trasparenza.
Per saperne di più: Banca Etica