Solo per amore. Con tutto l’amore! [prima parte]
Betlemme, 16 agosto – 1 settembre 2013 [Prima parte]
Lo abbiamo fatto per amore. Solo per amore. Con tutto l’amore.
Ed eccoci qui, io e mio marito Stefano. Betlemme, la casa del pane, la terra di Gesù. Un respiro profondo. Nel nostro cuore un solo desiderio: lasciare gli ormeggi e prendere il largo.
Nei mesi precedenti la partenza eravamo emozionatissimi, abbiamo cercato di prepararci al meglio studiando la lingua, approfondendo la cultura e la questione del conflitto israelo-palestinese. Ci piaceva immaginare come sarebbe stato là e cosa avrebbe significato ritornare. Ma non avevamo immaginato nemmeno lontanamente quale fosse il progetto di Dio su di noi.
Non posso parlare della nostra missione senza rivivere quanto è accaduto nelle due settimane precedenti la partenza, quando ho scoperto di essere incinta e di aver perso il mio bambino prima ancora di realizzare che viveva in me. Il nostro viaggio fisico per la missione è stato posticipato di dieci giorni nel tempo, ma nello spirito è iniziato nel preciso istante in cui ho scoperto di essere incinta.
«Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto».
Ero un chicco di grano maturo, ma dovevo diventare debole attraversando il dolore per portare frutto. Sono stata svuotata, fisicamente e mentalmente. Con gli occhi fissi verso un orizzonte invisibile fuori di me, o forse nel più profondo del mio cuore. Dio dà, poi toglie… ma ancora torna a dare, ricolmandoti con doni così grandi che tu non avresti nemmeno potuto sperare.
A volte ti viene incontro nel volto di una persona, come è successo a me: appena abbiamo visto il sorriso di fra Pierpaolo all’aeroporto di Tel Aviv, ho lasciato andare quel senso di stanchezza, e la forza della fede mi ha fatto rialzare la testa: “Ok, Signore, ci sto. Sia fatta la tua volontà. Fino in fondo”. Nel cuore avevo la certezza che qualcosa stava già cambiando e il vento stava tornando a soffiare.
Il nostro servizio in Terra Santa ci ha permesso di entrare in contatto con due differenti realtà: gli anziani della Società Antoniana e i bambini disabili della Hogar.
La Hogar è una casa famiglia che ospita all’incirca quindici bambini disabili tra i cinque e i nove anni. Le loro famiglie li hanno abbandonati subito dopo la nascita, perché per la cultura musulmana un figlio handicappato è un disonore. In alcuni casi non si sa chi siano i genitori naturali, in altri, invece, i bambini mantengono qualche legame con la madre, che va a trovarli di tanto in tanto o li porta a casa per qualche giorno in occasione delle vacanze. Alle volte questi bimbi arrivano da La Creche, l’unico orfanotrofio di tutta la Palestina; ma a differenza dei bambini di La Creche, che a sei anni vengono trasferiti nei villaggi SOS Children, i bambini della Hogar rimarranno a vita in casa famiglia, perché non esistono strutture palestinesi che offrano supporto ai disabili. Non solo, purtroppo in Palestina vige una giurisdizione islamica, che vieta le adozioni. L’unica possibilità per offrire a quei piccoli una famiglia sarebbe l’affidamento, ma essendo la Palestina territorio occupato, ciò è possibile solo all’interno dello stesso territorio, e chiaramente, sia per questioni culturali, che economiche, nessuno prende in affidamento bambini disabili.
E questa è la teoria, fatta di burocrazia, leggi, occupanti e occupatori, di mancanza di diritti e di storie che strappano il cuore. Poi c’è la pratica, in cui scorre la vita vissuta da questi bambini e dalle suore che se ne occupano h 24 con il sorriso: le suore del Verbo Incarnato.
Se oggi mi si chiede di raccontare cosa abbia significato per me vivere la terra di missione con questi bambini, la prima cosa che mi viene in mente sono i loro volti. Ognuno di loro unico e speciale. Ecco perché non potrei raccontare la mia esperienza se non ripercorrendo gli attimi vissuti con ognuno di loro.
La prima volta che abbiamo fatto visita alla casa, sulla strada che dalla Basilica della Natività conduceva alla Hogar, in qualche modo avevo paura che stando con loro avrei sentito il dolore di una ferita ancora in agguato nel profondo della mia anima, nonostante cercassi di nasconderla a me stessa. Per di più, io non avevo alcuna esperienza con i bambini, tanto meno con quelli disabili, e mi sentivo un po’ agitata, impacciata.
Appena arrivati ci hanno affidato Yahia, un bimbo autistico: dovevamo andare con altri bambini e i volontari dell’Unitalsi a prendere un gelato. Appena usciti dalla porta, Yahia si è buttato a terra e ha iniziato a urlare, con lo sguardo fisso nel vuoto. Panico. Cosa dovevo fare? Era colpa mia? D’istinto mi sono accovacciata su di lui per farlo tranquillizzare, e lui ha afferrato la pelle del mio viso e mi ha graffiata. Il cuore mi batteva forte. Avevo il viso rosso come un peperone, mi sentivo inadeguata, non sapevo come fare a calmarlo. Mi sono sentita maldestra e mi sono chiesta se non sarei stata un peso per le suore e i bambini piuttosto che un aiuto.
Il giorno seguente, all’idea di tornare alla Hogar, mi sentivo un po’ spaventata. Quando siamo arrivati non c’erano altri volontari, solo io e Stefano. La suora ci saluta e ci chiede di aiutarci a cambiare i bimbi, che si stavano appena svegliando dal sonnellino pomeridiano. Ok. A me tocca Ibah, una cucciolotta di 8 anni che a causa di una paralisi cerebrale avvenuta durante il parto è paralizzata su una sedia a rotelle, senza riuscire a controllare i muscoli del collo. Ibah non parla, forse nemmeno capisce quando gli parli, ma il suo sorriso è il più bello che io abbia mai visto. Ho sudato per cambiarla: era la prima volta che cambiavo un pannolino, non sapevo nemmeno da che parte cominciare, e per di più avevo paura di farle male, con quel corpicino così esile. Alla fine ce l’ho fatta, un sospiro di sollievo e un fremito di gioia nel cuore. Ed ecco che suor Nur mi chiede di darle la merenda: budino al cioccolato. Ogni cucchiaio lo rigettava, come se non riuscisse a deglutire nulla. E mentre le davo la merenda, mi sentivo osservare da quei grandi occhioni innocenti, mi sentivo scrutare fino nel profondo dell’anima. Avevo paura che si accorgesse che avevo paura, che mi sentivo a disagio, che avrei solo voluto che finisse in un attimo, perché vedere quella piccola bimba in quella situazione mi faceva una grande pena. Non riuscivo a guardarla negli occhi perché avevo paura di soffrire, perché avevo paura che avvertisse che provavo pietà di lei. Non riuscivo a sorriderle davvero, mi sforzavo, ma dentro di me avrei solo voluto piangere e scappare. Di nuovo, non mi sentivo adeguata. Mi sentivo debole, indifesa di fronte a quel dolore. Poi, verso le 5:00, sono arrivati i volontari dell’Unitalsi e siamo usciti con loro a portare i bambini a fare una passeggiata. Io portavo Ibah. Appena usciti dalla porta della Hogar, ha iniziato a emettere dei piccoli suoni acuti di contentezza e il suo volto si è illuminato, sorridente… Era così felice, e io ho pensato che fosse bellissima. È stata la prima volta in cui ho davvero avuto il coraggio di guardarla negli occhi. Era incredibile, quella piccola creatura sofferente mi trasmetteva una forza e una gioia, un’innocenza e una speranza incredibili. Io ero partita per dare un po’ di amore a lei, e invece la prima a darmelo è stata lei!
Sempre quel giorno ho capito che Stefano, mio marito, il mio compagno di missione e di vita, sarà un padre fantastico: si è messo a giocare con i lego con Yahia, Alah, Baha e Wissam, i magnifici quattro, le nostre pesti preferite. Sembrava così a suo agio. Era così tenero, protettivo, attento. È stata una sensazione bellissima e ho sentito che lo amavo ancora di più.
Col passare dei giorni le paure sono svanite. Ho iniziato a conoscere quei bambini: avevo più consapevolezza di quali fossero i loro problemi, imparavo a conoscere le loro reazioni, le loro abitudini, i loro caratteri. Ma non era solo questo, credo che stesse agendo in me l’istinto materno per cui, inconsapevolmente, mi rendevo conto di sapere perfettamente di cosa avevano bisogno, come una mamma. Iniziavo ad amarli come una mamma.
Sentivo a pelle cosa sentivano, le emozioni che vivevano, nel divertimento, nel gioco, ma anche nella paura di avvicinarsi a noi e di essere poi abbandonati, nella paura di essere accarezzati e rimanere poi feriti dalla possibile assenza di una carezza domani.
Alah, autistico, scalmanato. Sempre in movimento, cercava in ogni modo di rompere le scatole a tutti, un combina guai. Imitava qualunque cosa facessero gli altri, ma solo le marachelle! Era difficile tenerlo fermo, ma anche prenderlo in braccio, dargli una carezza. Si divincolava subito. All’inizio ho pensato che fosse un po’ “selvatico”, che non gli piacessero le effusioni di tenerezza, e evitavo di provare a dargliele. Quanto mi sbagliavo: non è che non le volesse o non ne avesse bisogno, aveva paura di affezionarsi, e forse era un po’ diffidente. Poi l’ultimo giorno siamo andati a fare una passeggiata, io tenevo per mano Alah e Baha, e Stefano Wissam, come una famiglia. Ci siamo fermati nella guardiola della basilica della Natività ad ascoltare la musica, di cui Baha è un grande appassionato. Sulle note dell’Ave Maria, Alah mi si è appoggiato al seno, io ho iniziato ad accarezzarlo in volto e a massaggiargli il pancino, e lui lasciava che io facessi, abbandonato. All’inizio avevo sbagliato approccio: non potevo dargli una carezza come volontaria, come amica, come adulta o qualunque altra cosa, ma solo come mamma, aprendogli il mio cuore, allagandolo di amore, guardando nei suoi occhi profondi con tutta la profondità dei miei, incontrando nel suo vuoto il mio vuoto. Una mamma che non ha visto nascere il suo bimbo; un bimbo che non ha visto mai la sua mamma. Ci siamo incontrati. Ci siamo toccati. E in quel momento io l’ho sentito come il mio bambino, e lui ha sentito me come la sua mamma. Avrei voluto che non finisse mai. Avrei voluto stringerlo a me per sempre, proteggerlo, riempire la sua vita con così tanto amore da farlo scoppiare di gioia.
Poi c’era Baha, il mio cucciolotto preferito. Ha 5 anni ed è down, ma è dolcissimo e coccoloso. È quello con cui da subito si è creata più empatia: appena mi vedeva entrare, se era già sveglio, mi si buttava con le braccia al collo per essere preso in braccio. Se invece era ancora nel letto mi diceva “Ciao” con il suo sorriso a mille denti e gli occhi sorridenti, e io lo prendevo, me lo sbaciucchiavo e lo cambiavo. Lui era felicissimo. È un piccolo cantante: gli piace cantare “La-la-la” sulle note di Jingle Bells, e quando sente la musica, balla! È troppo forte! Quando era ora di andare a fare la passeggiata, era emozionatissimo, mi dava la mano e partivamo. Lo affascinavano gli autobus: ogni volta che ne vedeva uno diceva: “Bas!” e lo indicava col dito, si fermava e non voleva più muoversi! Poi c’era il rituale: prendevamo l’ascensore per evitare di fare le scale e appena arrivava davanti all’acquario di Casa Nova si bloccava: “Maia, fish, bagaghè!” (Acqua, pesce e… bo’, non ho mai capito cosa significasse bagaghè, ma lo diceva spessissimo!). Poi gli compravamo un succo e lui salterellava: “Asir, asir!!” (Succo, succo!). A quel punto ci si sedeva tutti intorno al tavolo e si dava a ognuno un bicchiere di succo, ma bisognava tenerlo ben stretto, se no si sbrodolavano tutti! Era una gara a chi ne beveva di più! A Baha piace stare seduto in braccio, appena poteva ti abbracciava, ti prendeva le mani e te le faceva battere al ritmo di musica. Gli piaceva pure giocare con i penotolini, e mentre imboccava me, se stesso o l’orsacchiotto diceva: “Mmmm”!
Durante una delle nostre passeggiate abbiamo portato i bimbi alla basilica, e quel giorno Baha mi ha commossa. Era una mattina di particolare agitazione: non volevano camminare, urlavano, piangevano, in sostanza, facevano i capricci! Appena entrati in chiesa, Baha si è calmato; come per incanto, mi ha guardato e ha fatto: “Stttt”. Poi si è avvicinato alla statua della Madonna e ha iniziato a cantare l’Alleluia, lo sguardo come rapito. Col mio viso accarezzavo il suo collo, sentivo perfettamente il suo profumo così buono. L’ho affidato nelle mie preghiere a Maria. E ho chiesto di farmi capire cosa mi stava chiedendo il suo Figlio. Perché mi aveva mandata a Betlemme? Perché con quei bambini? Perché dopo quanto era successo?
Poi siamo scesi nella grotta e Baha si è sdraiato sotto l’altare e ha iniziato a baciare la stella. Non voleva più venire via. Nei suoi occhi ho visto quelli di Gesù. Anche lui un bambino di Betlemme. Anche lui nato in una mangiatoia. Anche lui con una croce. Eppure per me era il bambino più speciale del mondo. Lasciarlo l’ultimo giorno è stata una coltellata dritta al cuore. Non mi sembrava vero, non riuscivo a staccarmi. L’ultima volta che l’ho visto, l’ho messo a letto dopo pranzo. Sembrava che lo sapesse, mi si è attaccato al collo, ascoltava ognuna delle mie carezze, i nostri cuoricini erano un solo battito. Mi ha dato tanti bacini. La sua tenerezza innocente mi disarmava, mi lasciava senza difese, totalmente persa nell’amore. Ci siamo abbracciati io, Alah e Baha, tutti e tre insieme. Che bello, non era mai successo. Loro non parlano, ma in quell’abbraccio ci siamo detti tutto. In quel linguaggio dell’amore, ci siamo detti che ci volevamo bene e che non ci dimenticheremo mai. Io credo di avergli promesso, in cuor mio, che ritornerò. Eppure oggi sento la loro mancanza da morire. Mi chiedo cosa stiano facendo, come stiano, se mi pensino… ho tanta nostalgia!
Poi c’era Wissam, il prediletto di Stefano. La sua credo sia una forma di autismo piuttosto grave e alle volte è un po’ difficile da gestire. Secondo me ha paura di tutto e di tutti, per questo alle volte ha reazioni un po’ violente, ti tira i capelli, ti prende dei pizzicotti forti, ti tira gli occhiali… avrà 7, forse 8 anni, ma a volte i suoi comportamenti sono più simili a quelli di un bambino di 2-3 anni. È molto ripetitivo e spesso si tira i capelli e le orecchie da solo, oppure si dà gli schiaffi. A volte senza ragione, altre si “autopunisce” se combina qualche marachella. Il problema è che poi, Baha e Alah lo imitano e si schiaffeggiano pure loro!
È solitario, non gli piace interagire con gli altri bambini, e il suo gioco preferito è cucinare con i pentolini. Ci avrebbe passato le giornate! Con Stefano aveva trovato una bellissima intesa, credo che in lui rivedesse qualcosa del bambino che era da piccolo. Wissam ha sempre l’occhio triste, nostalgico. Quando mangia sparge il cibo per tutta la stanza, e in passeggiata si butta a terra ogni tre per due. Una sera, prima di andare a nanna, Wissam è andato da Stefano (stavamo seduti sul divano) e ha portato il suo biberon; poi si è sdraiato sulle sue ginocchia e si è fatto dare il latte. Aveva bisogno di attenzione, di protezione, di sentire qualcuno suo …non solo per pochi giorni, per sempre.
E poi Khader. All’inizio era schivo, stava sempre per conto suo. Se provavi ad avvicinarti si allontanava, se gli davi una carezza, la rifiutava. Aveva problemi a camminare, ma grazie ai vari interventi che ha subito, ora cammina abbastanza bene da solo. Un po’ dispettoso, forse: si divertiva a buttare i padellini di Wissam dalla finestra nel giardino del vicino, e più gli dicevamo “La” (No), più lo faceva. Ci guardava e rideva, come a dire: “Te l’ho fatta”. Oppure, se lo rimproveravi, ti sputava. Era il suo modo per chiedere attenzione.
È stato il terzultimo giorno alla Hogar che c’è stato l’avvicinamento con lui. Eravamo in piscina. Khader vedeva quegli spericolati di Alah e Baha tuffarsi, ma aveva paura, forse perché non si fidava ancora completamente delle sue gambe. Stefano allora ha iniziato a incoraggiarlo in modo giocoso: “Dai, Khader, sei un ometto! Tuffati! Facci vedere un bel tuffo!” Rideva divertito, per la prima volta eravamo riusciti a stabilire un feeling con lui. Stefano l’ha preso e l’ha portato al bordo della piscina da cui avrebbe dovuto tuffarsi. Khader allora si è tuffato, ma da seduto. Che risate si è fatto mentre faceva splash nell’acqua! Allora Stefano gli ha detto: “No, Khader, vogliamo vedere un bel tuffo da in piedi, dai!” E si vedeva nei suoi occhi che un po’ aveva paura, però desiderava provare la sensazione di tuffarsi da in piedi e gli piaceva quello stare al centro delle nostre attenzioni. Alla fine, l’ha talmente incoraggiato che si è tuffato in piedi, che bello! Da quel momento, non voleva più smetterla di fare tuffi! E ogni volta chiamava: “Stefano! Stefano! Guarda!” Avevamo rotto il ghiaccio. Khader non era solo un bimbo un po’ solitario e maleducato, era, come tutti gli altri, un bimbo in cerca d’amore. Aveva bisogno di qualcuno che lo facesse sentire importante, che gli facesse sentire che ci teneva a lui, che era suo complice, che si prendeva cura di lui. Il giorno dopo siamo tornati in piscina, quanto si divertiva a farsi fare le foto da me mentre nuotava! Mi chiamava: “Silvia, Silvia”, e voleva che gli dicessi che era bravo, come se volesse che io partecipassi di quelle piccole conquiste che stava facendo in acqua. Aveva degli occhi luminosissimi, castani, e dei capelli riccissimi! Da grande sarà un ragazzo bellissimo! L’ultimo giorno siamo andati a prenderlo con la macchina a scuola. Stava seduto sulla gradinata insieme ad altri compagnucci. Quando ci ha visti gli si è illuminato il volto. Secondo me era felice di vedere che eravamo andati a prenderlo, che eravamo lì proprio per lui, solo per lui. Quando sono scesa dalla macchina, gli ho fatto il sorriso più grande che potevo, gli sono andata vicino, gli ho preso lo zaino, e lui è venuto con noi felicissimo! La maestra mi ha vista e mi ha detto: “Khader sta migliorando a vista d’occhio!” Non è mio figlio, eppure mi sono sentita davvero orgogliosa di lui, ho gioito di quelle parole, e ho sentito che volevo tanto bene a Khader! In macchina gli abbiamo chiesto in arabo come era andata la lezione, se aveva mangiato. E lui era felice di queste attenzioni: gli bastava così poco! Il quel momento ho capito che davvero per essere felici basta un po’ di amore, basta non dare per scontate delle piccole cose che alle volte nella quotidianità svaniscono, ma che fanno sentire l’altro importante per te. Scherzavamo facendogli il solletico: “Sei piccolo come Sabrin” (Sabrin è una piccolina di tre anni, anche lei ospite della Hogar), e lui ridendo: “Nooo!” Allora io: “ Sei un ometto, non è così?” “Siiii”. Che bello quell’attimo di normalità, come se fossimo una famiglia. Quell’attimo di normalità in una vita non normale, perché lui una famiglia non ce l’ha. Avrei voluto non lasciarlo e ripetere quella stessa scena ogni giorno, per sempre. Per vedere i suoi occhi sorridenti, e quelli di Stefano innamorati.
Poi c’era Sabrin. Lei era una bimba “normale”. Ha tre anni, ma è stata abbandonata insieme al fratellino più grande, Katcut, perché è nata da un rapporto incestuoso tra due fratelli. Sabrin alla Hogar ha tante mamme, le suore, ma non ha un papà. Ecco perché si è subito affezionata a Stefano: voleva che lo cambiasse solo lui, che solo lui la prendesse in braccio o la mettesse a letto. Solo a lui dava il bacio della buona notte. È assurdo, ma un po’ mi sono ingelosita di quella cucciolotta che voleva Stefano tutto per sé J. Allora, un giorno, mentre Stefano la stava cambiando, abbiamo fatto un esperimento: abbiamo provato ad abbracciare Sabrin, tutti e due insieme. Per tutta risposta, Sabrin si è messa in mezzo a noi, rivolta verso Stefano, come ad escludermi da quell’abbraccio. Allora, scherzando, ma con tono di rimprovero, le ho detto: “Sabrin, non si fa, sei proprio una furbetta”. Poi mi sono pentita di averlo anche solo pensato: lei non ha un papà, e chissà quanto le manca. Chissà quanto le mancano le sue attenzioni. Chissà quanto deve essere brutto per lei non aver più rivisto Stefano al suo risveglio, o forse ci è abituata a vedere volontari che vanno, a cui lei si affeziona, e che poi vanno via così come sono venuti. Una delle suore ci ha chiesto: “Perché non portate Sabrin in Italia con voi?” Noi abbiamo sorriso, pensavamo che scherzasse, anche perché non è possibile adottare bambini palestinesi in Italia. Poi la sera ci siamo chiesti: se avessimo potuto portarla con noi, l’avremmo fatto? Da tempo io e Stefano pensiamo che oltre ad avere un figlio naturale, ci piacerebbe adottare un pulcino. Avremmo adottato Sabrin se fosse stato possibile, se magari già avessimo un figlio nostro? Penso di sì, sia lei che il fratellino Katcut.
Katcut ha sei dita in una mano, ma apparentemente non ha nessun altro problema. Ci hanno spiegato però che ha anche delle gravi malformazioni cardiache, e che la sua aspettativa di vita, purtroppo, non è molto lunga. Anche Katcut, come Khader, lo abbiamo scoperto tardi, solo due giorni prima di partire, in piscina. Un po’ anche perché nei primi giorni in cui noi stavamo a Betlemme lui era in vacanza. Katcut è un bimbo ben piazzato, pacioccone, avrà otto anni, più o meno. Ha un viso tanto dolce e, nonostante la stazza fisica, è un po’ pauroso e molto timido. Però, se lo coinvolgevi, ti sorrideva: anche dietro a quella timidezza scoprivi un bisogno incolmabile di amore. Non dimenticherò mai quando l’ultimo giorno, prima di andare, lo abbiamo messo a letto. Passando nel corridoio, ho visto che Katcut non dormiva. Allora mi sono avvicinata, lui mi ha guardato e mi ha chiesto: “State andando in Italia?” Ho sentito una lancia trafiggermi il cuore. Non sapevo cosa rispondergli, avrei voluto avere una risposta che non lo facesse soffrire, ma non potevo prenderlo in giro. Gli ho detto: “Sì, purtroppo dobbiamo tornare in Italia. Ma ti porto con me nel cuore. Ti voglio tanto bene e spero di tornare presto con voi”. Ho visto che gli venivano le lacrime agli occhi. Gli ho dato un lungo bacio, l’ho accarezzato. Non sapevo che altro fare o dire. Speravo che si addormentasse per farmi sentire un po’ meno in colpa per il fatto che me ne stavo andando. Invece i suoi occhioni continuavano a guardarmi nell’anima. E ho sentito uno stesso bisogno/desiderio affiorare in me e in lui: in lui quello di avere una mamma, in me quello di essere mamma. E in quel momento mi è venuta in mente una domanda che mi aveva fatto il giorno prima Mary, una delle anziane della Società Antoniana, anche lei con le lacrime agli occhi: “Perché siete venuti?” Lei voleva dire: “Perché siete venuti, ci avete portato gioia, se ora dovete andare e tutto tornerà come prima?” Perché siamo venuti? Lo chiedo al Signore tutti i giorni da quando siamo tornati, affinché mi sveli quali sono i suoi progetti per me e Stefano.