Testimonianza di una volontaria (anonima) che ha trascorso questa estate un periodo in Congo

Nel 1993, quando avevo più o meno 14 anni, ascoltai la testimonianza di un piccolo grande uomo di nome p. Eugenio Clemenza (frate minore) che raccontò la sua esperienza missionaria in Congo. Ero praticamente una ragazzina, ma quel racconto piantò nel mio cuore il desiderio dell’Africa, nella mia mente la singolare immagine di me, appoggiata ad un vecchio casolare con i vestiti logori e i capelli raccolti, e nella testa una parola che, non so perché, più di tutte mi colpì: BOBOTO (in lingua Lingala: pace).

Sono passati più di 15 anni e la mia vita è stata travolta da un turbinio di eventi e di gente. Quel desiderio, quell’immagine, quella parole sono rimaste lì, in un angolo recondito del mio cuore, senza mai morire, ma si sono fatte da parte per lasciar spazio al sogno di una vita “normale” che prevedeva un marito, un figlio, un lavoro mal pagato, un mutuo…un sogno che ha avuto la pretesa di controllare il corso della vita senza forse mai tener conto che i progetti degli uomini non sono quelli di Dio e che i tempi del mondo non sono quelli di Dio. Ho passato la mia vita, soprattutto gli ultimi anni, affannandomi per realizzare le mie aspirazioni per registrare, alla fine, solo dei clamorosi fallimenti. Fallimenti che mi hanno messo a nudo e che mi hanno fatto constatare la più totale incapacità dell’essere umano (soprattutto di quello adulto) di tenere le redini di tutto.

A 32 anni è stato necessario che io mi sentissi NIENTE per ritornare a fidarmi di Dio, ho dovuto provare il dolore, quello straziante, dell’abbandono per comprendere che tutto ha un senso anche se nell’immediato ci sembra invisibile, ho dovuto sentire la disperazione perché nel mio cuore e nella mia mente ritornassero quel desiderio, quell’immagine, ma soprattutto quella parola …BOBOTO…PACE…per il mio cuore offuscato dalle tenebre.

Detto fatto. Prima ancora che potessi rendermene conto, avevo già fatto i vaccini di rito e il biglietto per Brazzaville. Avevo contattato un frate francescano che conoscevo e che aveva fatto, l’anno precedente, un’esperienza in una struttura che accoglieva i ragazzi di strada. Mandò anche me nello stesso posto. In realtà lui non mi disse molto ed io non gli chiesi tanto! La verità è che ero lacerata da due forze uguali e opposte: da una parte la voglia di andare, dall’altra la paura di partire e il segreto desiderio che qualcosa andasse storto e mi impedisse di andare.

Continuavo, soprattutto nelle mie notti insonni, a chiedermi perché…perché volessi affrontare questo folle viaggio, invece di fare una vacanza in una località mondana. Le risposte erano tante e spesso discordanti: la voglia di autopunirmi per la vita dissoluta che avevo condotta negli ultimi tempi, il pensiero che una vita non ha molto senso se è fine a se stessa e non è spesa per il prossimo, il desiderio di distrarmi da me stessa e quello di portare lontano la voglia di morire che lottava con quella di rinascere.

Sono arrivata all’aeroporto arrabbiata col mondo, con Dio e con me stessa, ma lì mi aspettavano il frate che si occupa della struttura e due ragazzoni che mi hanno disarmato con il loro sorriso. Improvvisamente tutte le finestre del mio cuore si sono spalancate e hanno fatto entrare la luce. Qualcuno in Italia mi aveva detto che l’Africa avrebbe annientato lo stato di catalessi in cui ero da tempo ero caduta, ma io, prima di partire non ci ho creduto neanche per un momento. Invece, giorno dopo giorno ho assistito con stupore e incredulità al miracolo della ritrovata serenità e ho smesso di svegliarmi ogni mattino maledicendo il risveglio.

Non è magia è solo il sole che prende il posto della pioggia battente. Mi sono ritrovata a vivere in una maniera che ha stravolto completamente i ritmi ai quali ero abituata, a fare cose che non avevo mai fatto, né mi sarei sognata di fare: sveglia prestissimo, doccia fredda, bucato a mano, abiti scadenti che non rimanevano puliti per più di tre ore, cibo “misurato”, tanto lavoro manuale (attaccare bottoni, rattoppare magliette, imbiancare una casa…)…eppure neanche un momento ho rimpianto le mie comodità: troppo spesso l’essenziale è invisibile agli occhi.

Credo che ingessata nei miei vestiti firmati avessi perso di vista ciò che la vita dei ragazzi del centro mi ha rivelato ogni momento. La gioia della semplicità, della gratitudine, della comprensione, dell’umiltà, della fraternità; la bellezza del tempo che scorre, ma che è tuo; e, infine, quello strano senso di PACE…BOBOTO… una pace che emoziona ad ogni momento e che provo anche ora mentre scrivo, quell’emozione che ti spezza il respiro e ti fa tremare la voce.

La vita di quei ragazzi dal passato burrascoso è stata costantemente uno schiaffo ad una persona che per mesi ha detestato la vita…la vita…il bene più prezioso. Mi sono sentita non più individuo, ma individuo che è parte integrante dell’umanità. Non posso dire che questa esperienza mi abbia reso più forte…anzi credo di essere tornata più fragile che mai, perché il tempo che ho trascorso a Ndako ya bandeko mi ha spogliato della corazza che mi ero costruita addosso, ma proprio così…. fragile, ritorno a vivere. Spero solo che quello che ho vissuto non sia il seme caduto tra le spine, ma che germogli e faccia rifiorire la speranza in me e nelle persone che incontrerò sul mio cammino.

Ora non mi resta che ringraziare Dio e le persone straordinarie che hanno voluto che la loro storia si incrociasse con la mia …grazie e che BOBOTO sia sempre con voi!