Incontro con Tresor, 18 anni

Stamattina mi trovo a trottare per le vie del quartiere centrale di Moungali, il sole batte da paura, la stagione delle piogge è cominciata. Per strada c’è più rumore del solito, mi rendo conto che è il rumore dei piccoli gruppi elettrogeni che i venditori westafricani utilizzano per tenere accesi gli arnesi e i ventilatori nei loro magazzini. Come al solito, manca la corrente. Giro per completare le forniture scolari di alcuni dei nostri grandi amici. A dire il vero uno di loro è con me, sotto il sole anche lui. Lo guardo come per la prima volta e mi chiedo cosa ci sia dietro quella vita, all’apparenza spensierata e ancora tutta da vivere…

Glielo chiedo, gli chiedo di parlarmi della sua vita. Gli dico che potrà servire perché anche altri possano conoscerlo. Quella che segue è la sua risposta.

Mi chiamo Tresor e ho 18 anni.

Quando ero piccolo vivevo a Kisangani con mia madre mio padre e mio fratello più piccolo. Mio padre era militare. Un giorno la guerra arrivò da noi. Sentivo i suoni dei fucili che sparavano ma sembravano lontani. Ci dissero che era la guerra ma io non capivo molto. Poi, la notte, i guerriglieri entrarono nel villaggio. Qualcuno ci mise nelle macchine, noi i bambini e le donne, e ci diressero verso il nord attraverso la foresta. A un certo punto dovevamo attraversare un fiume ma il ponte si era rotto e anche la benzina era finita, per questo lasciammo la macchina e cominciammo a correre a piedi. Attraverso la foresta per tanti giorni, alcuni morivano per strada, altri non ce la facevano e restavano indietro, noi continuavamo per giorni e giorni a correre. Mangiavamo ciò che si poteva trovare nella foresta, frutta selvatica o foglie e bevevamo quando trovavamo delle pozzanghere o dei ruscelli.

Arrivammo alla frontiera con il Sudan nella foresta e lì dei militari ci misero dentro a delle vetture e ci mandarono in Sudan. Arrivati lì ci misero in alcune grandi case e lì cominciammo ad abitare per un po’. Mamma era con noi, con me e con mio fratello (all’epoca avevo 5 anni e mio fratello ne aveva 2). Per qualche mese restammo in queste grandi case poi ci dissero di prepararci al rientro perché la guerra era finita. Ci portarono all’aeroporto e ci fotografarono a uno a uno, scrivendo i nostri nomi ci misero su un grande aereo che ci portò prima in Kenia e dopo qualche settimana un altro aereo ci prese e ci portò a Kinshasa.

Ci lasciarono nel quartiere di Kingasani, verso l’aeroporto, dove era stato allestito un centro di accoglienza profughi e c’erano dei lunghi corridoi divisi in tante stanzette di tenda dove ogni famiglia trovava alloggio. Io ero in una di quelle con mia madre e mio fratello. Ci diedero delle pentole e delle cose per organizzare la nostra vita e una volta al mese ci davano la razione alimentare. Per lavarci c’era un ruscello accanto a noi e nel centro c’era una pompa a mano che prelevava l’acqua da un pozzo.

Quando anche i militari cominciarono a rientrare dopo qualche mese, ci dissero che sarebbero stati accolti in un altro campo, al centro città, con i dovuti onori. Se dei militari non sarebbero stati presenti voleva dire che erano morti in guerra. Noi tutti andammo a vedere con la speranza: volevamo rivedere papà.

Andammo e vedemmo i militari che via via scendevano dalle macchine dell’esercito, ma non vedevamo papà. Dopo il primo giorno niente e così anche il secondo. Ci dissero “quelli che non avete visto, sono morti”.

Tornammo al centro di accoglienza. In più oramai quelli che ci portavano il cibo cominciavano a venire sempre più raramente. Spesso non venivano e bisognava sbrogliarsela da soli. La mamma cominciò ad ammalarsi agli occhi, una specie di congiuntivite credo, la portarono all’ospedale vicino al campo, ma lì chiedevano molti soldi per i medicinali e noi non ne avevamo. E la malattia peggiorava. Poi ci dissero che lei poteva restare in ospedale mentre noi dovevamo rientrare nel centro. Ma ora che la mamma non c’era, dove trovare da mangiare? Un po’ ce ne davano i vicini, ma non era facile: la situazione era la stessa per tutti. Ogni tanto andavamo a trovare la mamma ed era veramente dimagrita a causa della malattia. Un giorno ci dissero che la mamma era morta. Vista la situazione presi mio fratello e ce ne andammo verso il centro città a cercare una soluzione migliore. Cominciammo a stare verso il mercato dove lavavamo i piatti nei ristoranti del mercato. Un giorno incontrammo un amico che viveva per strada e ci consigliò di lasciare perdere quel lavoro perché era poco remunerativo, e che invece nel grande mercato era più facile trovare da mangiare e da dormire.

Cominciammo così a vivere con altri ragazzi per strada, eravamo tanti. Mio fratello piccolo restava spesso due o tre settimane con altri con cui ci davamo il turno a cercare da mangiare e badare ai più piccoli e ci rincontravamo al ritorno.

Un giorno un amico che veniva da Brazzaville mi disse che dall’altra parte (del fiume) si viveva meglio e che quindi era meglio traversare. Io dissi che non avevo soldi per prendere i mezzi ma lui mi disse che bastava trovare qualche moneta da dare a dei militari e il gioco sarebbe stato facile.

E così fu. Prendemmo il grande battello e arrivammo a Brazzaville. Tra le mille difficoltà, le stesse che alla partenza al porto di Kinshasa, riuscimmo alla fine a uscire dal porto di Brazzaville attraversando la dogana.

Il primo giorno arrivammo in un centro di accoglienza per ragazzi in difficoltà chiamato IRC, eravamo curati se malati, nutriti e vestiti, però lì non c’era posto per farci dormire. Il centro accoglieva solo ragazzini piccoli. Allora quando non eravamo al centro, eravamo in giro a cercare qualcosa per avere un po’ di moneta in tasca, come pezzi di cavo di rame da vendere ai fonditori che ne facevano souvenir per i turisti. Ma quel centro un bel giorno chiuse perché i gestori dovevano partire. Mi ritrovai per strada e vi rimasi per circa un anno.

Un ministro dello stato cominciò un’attività in un centro per introdurre i giovani allo sport (ping pong) e io cominciai a frequentarlo. Ci davano un po’ di latte al mattino e poi verso mezzogiorno un po’ di monete. Nel 2004 camminando per il mercato di Poto Poto (un quartiere di Brazzaville) incontrammo un giovane che ci propose di entrare in un centro di accoglienza da poco aperto e così facemmo. Arrivammo in questo centro e ritrovammo il giovane che ne era un educatore. Lì si poteva mangiare e dormire e vidi che era bene, per questo ebbi l’idea di tornare indietro a Kinshasa a recuperare mio fratello. E così feci e tornammo insieme dopo qualche giorno in questo nuovo centro che si chiamava “Ndako ya bandeko – Franciscains”.

Oggi ho 18 anni e mio fratello ne ha 15. Frequento una scuola professionale per diventare saldatore e tornitore. Se imparerò bene il mestiere vorrei vedere di sistemarmi per essere in qualche modo autonomo e farmi una vita. Vedremo!

Qui sto bene, con gli altri ragazzi che sono al centro siamo una famiglia a i frati che sono qui sono per me mio padre e mia madre. Loro mi hanno accolto e fatto crescere. Però so che dietro di loro ci sono anche tante persone che ci aiutano e vorrei ricordare a tutte queste persone, invisibili per me, che il loro buon cuore resterà inciso nella memoria di Dio. E mai si cancellerà dalla mia.

 fra Adolfo Marmorino, ofm