Fernanda: “il mio Natale in Congo”
Pensieri confusi ed emozionati prima di ripartire dal Congo
Un mese fuori casa, un mese lontano dalla mia vita, stressante, frenetica ma anche comoda e sicura.
Un mese denso, colmo, straripante di avvenimenti, di incontri, di sorrisi, di cibo e lingue diverse.
Gli sguardi, le cose dette, ascoltate, osservate, sono talmente tante, più di quanto bocca, orecchie, occhi e cuore possano contenere. Ho visto tanto, più di quanto potessi mai aspettarmi e so che tutto questo è un dono.
Ho visto mamme, con i bimbi ben “assicurati” sulla schiena da un semplice pareo, portare cesti sulla testa in equilibrio, come mai crederei di poter essere capace di fare.
Ho visto bimbi sorridenti e in festa correre verso la macchina per stringerci la mano, come ho visto bimbi di neanche 2 anni o poco meno, gridare a distanza “mondele” (uomo bianco) con tanto di braccino alzato per salutarci.
Ho visto persone mai incontrate prima, salutarmi e sorridermi; ho visto “maman” preparare da mangiare destreggiandosi abilmente tra padelle, fuochi e ciocchi di legno.
Ho visto bambini caricare a palate la ghiaia dal fondale del fiume su una pirogue stretta e lunga, come se fosse un gioco.
Ho visto mamme, bambini e uomini andare alla fonte per approvvigionarsi d’acqua e portare sulle spalle o in braccio fusti da 25 litri per strade sconnesse e in salita, per poter bere; io non ne sono stata capace per più di cinque passi.
Ho ascoltato bimbi di 3-4 anni “gridare” cantando tutti assieme l’inno nazionale del Congo prima di iniziare la lezione.
Ho ascoltato il suono della pioggia, tanto attesa e desiderata e ho riso di cuore quando mi ha colto di soppiatto all’uscita della messa, bagnandomi fino alle ossa. Mi sentivo libera e avevo solo voglia di ridere.
Ho gustato sapori diversi ma ho anche gradito confortanti sorprese italiane. Ti rendi conto di come le tue radici si facciano più profonde, quando sei in un altro contesto.
Ho scoperto la preziosità di una penna, di un foglio di carta, di oggetti che nella nostra quotidianità non consideriamo quasi più. Qui sono stati strumenti che hanno dato voce alle emozioni, ci han permesso di farne memoria e ci han dato modo di comunicare con i ragazzi.
Ho riscoperto il calore e la bellezza del presepe: una piccola grotta davanti ai miei occhi, rifugio e protezione per chi viaggia e si ritrova senza riparo nel momento del bisogno, ma anche luogo di accoglienza per chi viene e fonte di gioia ed esultanza per tutto il mondo.
Sono stata sommersa dall’accoglienza e dalle attenzioni della comunità dei missionari francescani, dei religiosi, dei volontari. Persone mai viste né conosciute prima ma che ora sono parte della mia famiglia.
Ho guardato con ammirazione la fede e l’entusiasmo brillare negli occhi di una suora che mi raccontava delle piccole gocce di speranza trovate e seminate in giro per il mondo.
Ho vissuto per la prima volta un Natale semplice, silente, sobrio ma ricco dei volti sorridenti dei ragazzi a cui venivano distribuiti magliette, scarpe da ginnastica, pantaloni e tanti palloncini colorati.
Ho trascorso la vigilia di Capodanno contornata da ragazzi che ad uno ad uno pronunciavano il loro grazie per l’anno trascorso e per le persone che li avevano fatti sentire amati. Nel silenzio e nel buio della sera vedevo i loro occhi brillare come stelle.
Ho sentito sulla mia pelle il brivido della guerra e della malvagità umana quando una suora mi diceva: “Il Signore ci ha sempre suggerito le parole da dire a queste persone, anche con un fucile piantato nel ventre”.
Ho ascoltato le storie che i ragazzi mi han voluto confidare, ho cercato di comprendere ogni parola detta a voce bassa, ogni pausa tra una frase e l’altra dei loro racconti e la mia bocca si è chiusa per evitare, con le mie insulse parole, di dire qualcosa di inutile e scontato.
Ho ascoltato la storia di una madre che, cullando la sua bimba per farla addormentare, ci ha descritto come sia dovuta fuggire dal suo paese, scappando a piedi nella foresta, per sfuggire al massacro della sua gente e della sua famiglia.
Ho vissuto la semplicità e la spontaneità nell’avvicinarmi ai ragazzi di “Ndako ya Bandeko”: la prima sera me li sono trovati tutti vicino a dirmi e a scrivermi il proprio nome, mi han preso per mano e con i loro sguardi furbetti e i loro sorrisi mi han permesso di entrare nelle loro vite, anche solo per così poco tempo.
Ho vissuto il mio essere coppia con Antonio, mio sposo, attraverso i ragazzi: ci han fatto da specchio considerandoci come un’unica cosa; loro ci han ricordato ogni giorno la nostra scelta e soprattutto la voglia di rinnovarla nella genitorialità e nell’accoglienza.
Potrei continuare ancora, il mio cuore è così gonfio di emozioni, mi sento intrisa d’acqua come una spugna.. ma vorrei assorbire ancora tanto in questi ultimi giorni qui… ho bisogno di tenere ancora aperti i miei sensi per catturare ogni istante. Ci sarà tempo poi per meditare e lasciar decantare…ora sono ancora qua.
Fernanda