A dieci anni dalla sua consacrazione episcopale, l’arcivescovo metropolita a Mosca, monsignor Paolo Pezzi dialoga di Russia, martirio e giovani con Adriano Dell’Asta. L’incontro si è svolto al Meeting di Rimini 2018, luogo d’incontro per antonomasia.
A. Dell’Asta
La prima domanda è: che senso ha e che ne è della presenza cattolica oggi in Russia? Com’è la situazione, qual è il significato, quali sono le speranze?
Mons. P. Pezzi
Devo dire innanzitutto che in questo ultimo anno è iniziata in me una riflessione molto seria sulla nostra presenza, sul significato della nostra presenza in Russia. E questo mi ha portato a proporre una discussione seria, che spero avverrà in tutto questo anno, cioè da settembre a giugno dell’anno prossimo, sul valore e sul significato missionario delle nostre comunità, delle parrocchie e delle piccole comunità d’ambiente. Ciò che ho notato è che corriamo il forte rischio di una lenta eutanasia della Chiesa cattolica in Russia. Cioè là dove noi perdiamo il significato della nostra presenza, allora si continuano a fare anche molto bene tutte le cose, ma non c’è più prospettiva, come dicevi tu Adriano, non c’è più speranza. Questo ho notato visitando la diocesi, soprattutto visitando le parrocchie.
Ora ciò non significa che non restino le difficoltà, i problemi, ma è un po’ venuto meno il gusto, l’entusiasmo. Sì, bisogna dirlo direttamente, il gusto e l’entusiasmo per Cristo. E quindi non tanto i problemi organizzativi, perché non è che ci sia da organizzare molto nella nostra realtà che è piuttosto piccola, ma proprio il fatto di procedere secondo un’onda che potremmo descrivere con il motto: «Abbiamo fatto così per tanti anni, continuiamo!» Ecco, questo mi sembra un po’ il punto. Come dire, è la necessità di dover ricominciare.
Hai usato alcune parole che mi provocano. Hai parlato di missione, hai parlato di stanchezza, del fare le cose ripetendo consuetudini, ecc… Pensando alla missione può venire in mente l’«andare alla conquista». Ora, padre Scalfi ci ha sempre educato a concepire la missione assieme all’ecumenismo, come anelito all’unità. Nello specifico della Russia, dunque, in rapporto con la Chiesa ortodossa. Si va in missione non per conquistare qualcuno o per far vedere quanto siamo bravi, ma innanzitutto per convertire noi stessi. Diceva infatti: «Che i cattolici siano sempre più cattolici e gli ortodossi sempre più ortodossi. L’unità della Chiesa è un dono di Cristo». Come crescono i rapporti con la Chiesa ortodossa?
Dopo che divenni vescovo dieci anni fa, nel 2008, mi invitarono qui al Meeting per un incontro. E in quella occasione ripresi una cosa che era nata da un dialogo di alcuni anni prima con padre Scalfi, e cioè che la missione comincia dove finisce il proselitismo. Penso che sia questa oggi la questione: una missione non dettata da un voler ingrossare le fila del proprio gruppo, ma che sia totalmente determinata dalla gratuità, dalla gratitudine per la bellezza di quello che si è incontrato nella propria vita.
Quando questo atteggiamento è determinante, si vede immediatamente il cambiamento. Si vede immediatamente, per esempio, la possibilità di incontrarsi, di dialogare. Non stai più ad aspettare che l’altro cambi, ma con questa tua posizione tu hai già iniziato a cambiarlo: vedi che anche in lui nasce una disponibilità, una apertura, una semplicità.
Oggi celebriamo la festa di san Bartolomeo. San Bartolomeo mi stupisce sempre quando leggo il Vangelo di Giovanni. Stupisce quest’uomo! Era certamente il più saggio tra gli apostoli, quello più posato, forse il vero maestro di Israele, il vero rabbì. Un uomo che ha una buona esperienza, che conosce bene come stanno le cose e non ha problemi a dirlo: «Da Nazareth non può venire nulla di buono!». Ma questo per lui non è un blocco! San Bartolomeo ha la saggezza dell’uomo maturo, ma dentro ha il cuore di un bambino. Non ha problemi dinanzi a quel pivellino di Filippo che gli dice: «Va beh, vieni comunque a vedere». Lui ci va! Non è chiuso, è aperto. Questo è il fattore che io ritengo più importante per me nel rapporto e nel dialogo con gli ortodossi. Non rinunciare alla mia identità, non annacquare quello che siamo e, soprattutto, non perdere di vista la coscienza di tutto ciò che noi possiamo portare, ma nello stesso tempo non fare di questo una chiusura, bensì una possibilità di incontro con l’altro.
Negli ultimi anni, una delle cose per me più significative è stato l’incontro con alcuni sacerdoti ortodossi di periferia. L’incontro è stato abbastanza casuale, attraverso dei giovani cattolici e ortodossi coi quali periodicamente mi incontro. Devo dire che questi incontri sono molto stimolanti, perché mettiamo a tema la passione pastorale, la passione missionaria per la gente che ci è affidata. E mi colpisce molto come questo superi le barriere. Non c’è in nessuno l’intenzione di volere meno bene alla propria Chiesa. Non vengono mai fuori lamentele. Si condivide sempre il gusto di appartenere alla propria Chiesa, mettendo in gioco questa passione missionaria. Ecco, quello che a me interessa è un dialogo con gli ortodossi a questo livello.
Parlavi di barriere che si devono superare e che nell’incontro si trovano superate quasi naturalmente. Il nostro mondo vive da una parte della totale caduta di qualsiasi barriera, di ogni differenza, dall’altra di una ricerca, dello sforzo di formare una identità che molte volte finisce per criticare, per respingere l’altro e non stare neppure più ad ascoltarlo. È il fenomeno della globalizzazione o della perdita di identità. La società russa di oggi, i ragazzi, i giovani, avvertono questo? La Russia è presa anch’essa dentro questo movimento mondiale o in qualche maniera ne è fuori?
Non so se si possa dire che c’è qualcosa di analogo a quello che avviene nel resto del mondo, anche perché riconosco di non conoscere bene la situazione dei giovani nel resto del mondo. Una certa idea me la sono fatta attraverso il documento preparatorio per il Sinodo e, soprattutto, attraverso il documento che i giovani hanno presentato al Papa in occasione della domenica delle Palme in vista del Sinodo di ottobre. A questo incontro ha partecipato anche una nostra ragazza russa. Ciò che maggiormente l’ha colpita è, per dirla in negativo, questa paura di progettare, di guardare al proprio futuro, e in positivo un bisogno di certezze, di un punto di appoggio che non ti elimini. Mi sembra che nella società russa i giovani vivano soprattutto questo secondo rischio: avere dei punti di appoggio anche relativamente sicuri e fondanti, ma che ti tolgono il rischio, ti eliminano il rischio della libertà. Sto usando, capisco anch’io, frasi un po’ generiche, ma dato il poco tempo non è facile sviluppare tutto. Questo è quello che, per esempio, più mi colpisce: genitori che cercano di fare il bene dei figli, ma hanno già pensato quale deve essere il loro futuro, quale strada devono scegliere, se e a quale facoltà universitaria andare. Tutto con buonissime ragioni, con buonissime intenzioni. Il timore di addentrarsi sul terreno evidentemente scivoloso del rischio della libertà mi sembra l’aspetto oggi più provocante nella vita dei giovani.
Io avevo in mente un’ultima domanda molto legata a quello che hai appena detto, riguardo al futuro e alla paura di correre il rischio della libertà. Nella vostra storia, nella storia della Russia, c’è un momento nel passato in cui il rischio della libertà è stato corso in maniera luminosa ed è la storia del martirio. Che valore rappresenta oggi la memoria del martirio?
Magari desto scandalo, ma devo dire che abbiamo forse un po’ tradito questa memoria. Il martire oggi è molto scandaloso e quindi si cerca di edulcorarlo, di farlo rientrare dentro alcuni schemi, per lo meno in determinati canoni di legalità. Se ne eliminano anche concretamente gli aspetti più spigolosi. Si va verso l’oblio. Il martirio non diviene nemmeno più oggetto di interesse ideologico, cioè non si utilizza nemmeno più la figura del martire per appoggiare una propria ideologia, un proprio pensiero, una propria linea da perseguire. Semplicemente lo si addomestica o si cerca di dimenticarlo. Questo secondo me è un altro grosso rischio che viviamo. Posso capire tante ragioni sia dello Stato che della Chiesa ortodossa, ad esempio il desiderio di ripristinare come erano in origine i monasteri divenuti poi lager. Personalmente non vedo nemmeno la necessità di dovere, in modo talvolta anche un po’ pruriginoso, insistere sempre e solo sulla negatività del lager. Ma cancellare questa pagina della propria storia non penso che aiuti.
Voglio parlare innanzitutto dei martiri cattolici. Sto facendo una grandissima fatica a far passare un ricordo vivo dei nostri martiri! Nella migliore delle ipotesi si riesce a parlarne solo in termini ideologici. Quest’anno ho pensato di fare in Quaresima dei «venerdì di memoria» in cui raccontare la vita di questi martiri per provare a ridestare questa memoria. Riconosco, in tutta coscienza, che sono io il primo a subire questa mentalità, cioè io stesso rischio di fare del martirio uno strumento ideologico oppure di lasciar andare. Di dire, insomma, che in fondo noi dobbiamo preoccuparci di ben altre cose. Invece la memoria del martirio, soprattutto là dove splende come purità di testimonianza a Cristo e di Cristo, per noi è fondamentale oggi, perché se non recuperiamo questa dimensione personale e originale del rapporto con Cristo noi non abbiamo futuro! I frutti, i risultati sono nelle mani di Dio, non ci interessano, ma il valore stesso del nostro essere in Russia dipende dalla memoria dei martiri in questo senso, cioè dipende dalla memoria del fatto che il rapporto con Cristo è la vera questione con cui siamo chiamati a fare i conti. Senza la memoria di questo incontro possiamo fare dei progetti geniali, bellissimi, ma non avviene nessun cambiamento. Invece là dove è vissuto cambia il quotidiano! E può arrivare a cambiare persino l’istituzione. Non bisogna avere questo timore.
Testo non rivisto dai relatori
http://www.lanuovaeuropa.org/chiesa/2018/09/17/la-russia-i-cattolici-i-giovani