Jonathan: “Fuori” uno!

Carissimi, con questo articolo iniziamo a pubblicare le lettere che abbiamo ricevuto dai nostri “Ragazzi fuori”, con le quali desiderano ringraziarvi per il sostegno che avete voluto dare loro e, al tempo stesso, aggiornarvi un po’ sulla loro situazione.

Diamo subito la parola a Jonathan…

 

Cari amici, buongiorno.

Vi ringrazio enormemente per avermi fatto dono di questa borsa di studio, che mi permette di frequentare la Scuola superiore di Gestione e amministrazione d’impresa (ESGAE), che è un’università privata. Ho avuto il privilegio di ricevere da parte vostra  la borsa quest’anno e ve ne sono profondamente grato. Attualmente studio finanza e passerò al terzo anno del mio ciclo di studi, più orientato verso un ramo comune, per acquisire una licenza professionale di amministratore d’Impresa (LPAE).

 

 

 

 

 

 

 

Al termine del ciclo inferiore mi si prospettavano diverse possibilità: lanciarmi sul mercato del lavoro, per esempio, o continuare i miei studi nel ciclo superiore. ma a causa della disoccupazione endemica e della necessità di essere sempre più specializzati nella vita professionale per poter avere migliori possibilità di riuscita, ho preferito continuare gli studi.

Sono originario della Repubblica Democratica del Congo, che ho lasciato 17 anni fa per motivi sociali ma anche a causa di alcune nostre usanze: la mia famiglia, che mi accusava di stregoneria, aveva infatti cercato di uccidermi dopo la morte di mia madre. Nonostante abbia alle spalle un percorso pieno di difficoltà e ostacoli, ho perseverato e sono riuscito quantomeno a continuare gli studi. Come potete facilmente constatare, vengo da un ambiente in cui gli studi non sono per niente una priorità; tuttavia per me sono stati importanti, malgrado i sacrifici che bisogna fare per completarli e gli impegni che altre persone, in diversi modi e a più livelli, hanno dovuto assumere per me perché io potessi riuscire. Siccome la mia famiglia (sempre assente) non ha mai potuto aiutarmi economicamente, fin da bambino ho sempre avuto bisogno dell’aiuto altrui non solo per studiare, ma anche solo per vivere.

Devo dire certamente grazie ai frati francescani della Fondazione “Notre Dame d’Afrique” che hanno creduto in me e nelle mie capacità, facendo degli sforzi per incoraggiarmi e permettermi di andare sempre avanti. In particolare, sarei ingrato e non potrei firmare questa lettera senza un ringraziamento a fr Adolfo Marmorino (Ya Marmo) di cui avete fiducia e che in qualche modo fa da intermediario affinché io possa ricevere quanto mi mandate. A lui va la mia profonda gratitudine per la sua seria disponibilità ai miei bisogni e tutti i miei casi di urgenza, per l’integrazione totale nella nostra vita e per averci considerato suoi figli, per aver capito il grado della nostra sofferenza e aver cercato di farcene uscire.

Per queste ragioni tengo a ripetere i miei ringraziamenti più sinceri a tutti voi. Grazie a voi potrò respirare – economicamente parlando – e concentrarmi per raggiungere e completare i miei obiettivi accademici, e vivere senza avere troppe preoccupazioni perché voi mi aiutate non solo sul piano accademico, ma anche perché mi permettete di pagare un affitto e mangiare: mi avete offerto l’occasione di vivere una vita possibile.

Sperando di avere l’onore, un giorno, di conoscervi,

con ogni modestia, cari fratelli, vi sono in tutto riconoscente.

 

Brazzaville, 30 giugno 2018

 

Ekassi Jonathan

 

PS: ecco la sua “pagella”!

La storia di Chidé

Dio e suo figlio san Francesco d’Assisi mi hanno dato tutto ciò che ho e questo attraverso un uomo eccezionale. La mia storia non ha in realtà molti ricordi, visto che praticamente non ho mai vissuto con i miei genitori e quindi non saprei cosa dire di loro per potervene parlare. Quel poco che so e che mi hanno raccontato, ve lo dirò.

La storia comincia il 15 luglio 1994 a Brazzaville, quando mio padre morì. Morto dunque prima della mia nascita, non so niente di lui, non ho neanche una foto per poterlo immaginare… poi, il 30 luglio dello stesso anno, nacqui io, vivendo con mia madre che faceva tutto per me, tutto ciò che ha potuto fare fino alla sua partenza per il cielo… ero così piccolo che non ricordo neanche la data esatta della sua morte, ma penso tra il 2004 e il 2005.

Non è una storia né felice né divertente da ascoltare… mio padre morì e siccome nella cultura africana dopo la morte dei genitori qualcun altro avrebbe dovuto occuparsi di me e di mia sorella, per grazia di Dio andammo a vivere dai nonni.

Io piangevo tutto il giorno, ogni giorno perché non riuscivo ad accettare di non avere più dei genitori, sperando di poterli rivedere un giorno… ma purtroppo, niente… e dunque mi ritrovo in questa storia con mia sorella (più grande di me) vivendo entrambi con i genitori di mio padre, dunque i miei nonni. La vita da quelle parti non era molto semplice, in quanto già a sei anni dovevo da solo cercarmi da mangiare e da vestire perché nessuno poteva procurarsi qualcosa se non se la cercava da se stesso… una vita senza speranze di avvenire…

A quei tempi cominciavo la scuola, a scrivere le prime lettere, finché una delle mie zie, venne a prendermi perché io potessi vivere con lei, ma siccome da lei era peggio, tornai a stare con i nonni. Non riuscii a passare gli esami delle elementari perché non c’era nessuno che mi aiutasse a scuola e non avevo né libri né quaderni degni di questo nome. Per questo, mia nonna, d’accordo con un frate francescano, chiede se i frati in qualche modo avessero potuto aiutarmi. Fu così che mi misero in contatto con padre Adolfo del centro Ndako ya Bandeko e, accolto al centro all’età di 14 anni, è lì e solo in quel momento che la mia storia – posso dire – comincia per davvero.

Qui una nuova vita mi attendeva, la scuola innanzitutto. Ripensandoci oggi posso dire che sembra strano… ma è vero: Dio non ci lascia mai soli, neanche quando pensiamo che ci abbia tolto ogni cosa, tutto ciò che abbiamo di più caro… in realtà a Ndako ya Bandeko, Dio mi offriva qualcosa di più e questo qualcosa è la stessa casa, un luogo fatto di persone, una grande famiglia dove mi sentivo veramente a casa: si, Dio mi aveva dato molto di più.

Ricominciai la scuola e a sorpresa, in breve, superai gli esami delle elementari. Ma la famiglia non voleva che vivessi in un centro di accoglienza malgrado le loro difficoltà economiche. Pensavano forse che fosse un insulto ai miei genitori morti il mettermi in un centro del genere e alla fine mi hanno fatto ritornare da dove venivo. La vita si manifestava ancora più difficile per me. Vero è che il centro continuava ad occuparsi di me a distanza pagandomi la retta per la scuola e dando un sostegno alla famiglia per la mia alimentazione.

Facevo ogni giorno almeno sette kilometri a piedi per andare a scuola, poi bisognava traversare in piroga un fiume… questo perché nel mio quartiere non c’erano scuole medie… la sorella di mia nonna decise allora di farmi restare in un altro quartiere vicino a scuola, ospite in casa loro, ma le difficoltà non facevano che aumentare e chiesi di poter ritornare a Bandeko, dicendo che lì sarei stato molto più a mio agio.

In effetti, rientrato a Bandeko, visto che ero già grande, mi proposero la scuola professionale dai salesiani. Mi piacque molto e sono diventato saldatore e tornitore professionale nello spazio di due anni, facendo anche degli stages nelle imprese che sono in città e poi mi diedero anche un certificato di studi professionali e io ne ero veramente fiero. Dopo i Salesiani, l’impresa stessa mi propose un lavoro da loro ma io sentivo che dovevo continuare gli studi e così mi rilanciai perché avevo la speranza di poter diventare un giorno un intellettuale, un uomo con una certa cultura, capace di fare grandi cose nella vita, di sperare di  uscire dalla miseria della mia famiglia. I miei genitori in effetti non erano andati a scuola e nessuno in realtà in tutta la famiglia, a mia conoscenza, aveva fatto degli studi al di là delle elementari… nessuno sembrava avesse voluto osare andare un po’ più lontano. In questa famiglia di quasi analfabeti c’era per me la possibilità di fare altro e soprattutto in quei momenti avevo una grande ambizione, quella di diventare un francescano… ambizione che purtroppo si rivelò essere solo un sogno.

Mi rilanciai negli studi e feci degli sforzi notevoli per recuperare iscrivendomi agli esami di terza media. Purtroppo le cose non vanno sempre come si spera e a causa dei miei sbagli ho dovuto lasciare il centro e sono tornato a vivere dalle parti della nonna e di mia sorella. Peccato che non riuscissi a trovare neanche un lavoro, non vedevo via di uscita… avevo un gran desiderio di casa, provai a prendere in affitto una piccola abitazione (due metri per due di lamiere a 3 euro al mese) dove vivevo solo… ma stavo male e non avevo mai la certezza di poter mangiare ogni giorno.

Dopo sei mesi contatto ancora fr Adolfo per poter tornare a Ndako. Era la mia ultima chance per far avanzare i miei studi e in più io sapevo che era quella la mia vera casa. Quanto sentivo la mancanza di quella mia famiglia… fui accettato ancora e fr Adolfo mi propose un lavoro in una impresa portoghese che si occupava di costruzioni di cui aveva appena conosciuto il capo del personale, ma io gli spiegai che il mio sogno era quello di continuare gli studi. Così ripresi gli studi e dopo gli anni necessari, riuscii ad avere il mio bel diploma: Dio ci dà sempre ciò di cui abbiamo bisogno anche se in realtà non sempre noi sappiamo che cosa è importante per noi. A volte non sappiamo neanche cosa vogliamo dalla vita…

A questo punto una grande paura si installa in me: che fr Adolfo un giorno potesse rientrare in Italia per sempre… e anche se alla fine il momento è arrivato, non mi ha mai fatto sentire abbandonato: con il suo aiuto penso di integrare l’Università in psicologia, soprattutto perché qui la gente è molto superstiziosa, le malattie sono considerate conseguenza della stregoneria e tutto questo per me era (ed è) inaccettabile e ingiusto. L’ignoranza è inaccettabile e ingiusta. Mi fa male vedere le persone perdere la ragione a causa di malattie soprattutto psicologiche. Per questo avrei voluto fare gli studi in psicologia, anche se non mi sentivo molto forte per affrontare questo tipo di studi. Purtroppo il mio paese non aiuta i giovani e non favorisce gli studi: ho fatto subito esperienza di un lungo periodo di sciopero all’Università pubblica e così mi fu data la possibilità di inserirmi in una struttura privata anche se ho dovuto cambiare completamente il campo. Era necessario per non perdere altro tempo. Lo sciopero ha già portato altre volte a fare interi anni bianchi.

Così oggi studio scienze delle risorse umane e sono contento. Poi lo faccio in una università privata e riconosciuta (l’unica non statale riconosciuta dal governo). Adesso posso dire che la mia vita trova il suo vero senso di marcia e l’opportunità di prendermi finalmente in carico un giorno, comincia a presentarsi. Dio mi ha fatto grazia… per davvero! Oramai non penso più a questo passato di alti e bassi che è dietro di me: penso piuttosto a questo presente che mi mette il mondo davanti. L’università che ho sognato da quando ero bambino è qui, di fronte a me.

Considerando la distanza dell’università dal centro, sono ancora stato aiutato: con alcuni dei miei fratelli che sono anche loro all’università, abbiamo lasciato Ndako e abitiamo in un piccolo ma decoroso monolocale vicino a scuola. E quindi anche qui non sono solo. Sono con i miei fratelli di Ndako ya Bandeko: un’altra grazia per non restare da solo. All’inizio avevo tanta paura di lasciare il centro, ma oltre la distanza, anche il fattore età non mi permetteva di restare ancora a lungo laggiù… a casa mia.

Questo nuovo mondo era un po’ difficile all’inizio, tutto era nuovo: scuola, vita… ma come sempre non posso che dire grazie a Dio. Un frate francescano mi diceva sempre: “Chidé, tutto è grazia”. Oggi non posso che dargli ragione: tutto è grazia e Dio non ci abbandona mai e ci ama sempre attraverso delle persone come quelle che ho incontrato. Non ho molte parole per esprimere il mio grazie e mi ci vorrebbe un lungo elenco per dire tutto il bene ricevuto.

Grazie, ai frati e alle loro opere, e grazie a tutte le persone che non ho conosciuto e che forse mai conoscerò, ma che aiutano i frati a fare tanto bene in ogni parte del mondo: quanto è buono Dio! Che Lui stesso vi benedica.

Chidé.

Ragazzi fuori… casa!

Il progetto di scolarizzazione “Ragazzi fuori” nasce come necessità di permettere ad alcuni dei più volenterosi e potenzialmente capaci dei ragazzi del Centro Ndako ya bandeko di accedere agli studi superiori. Dovendo frequentare fuori dal Centro (da cui il nome del progetto) a causa della distanza dall’Università, abbiamo permesso loro di vivere a due a due in alcuni monolocali più vicini a scuola. Chiaramente, stando lontani, all’impegno economico per la scuola si aggiunge quello per la casa e i loro bisogni alimentari.

 

 

EKASSI JONATHAN, 25 anni. Cresciuto nel Centro “Ndako ya Bandeko fin dal 2004. Solo al mondo perché mandato via dai familiari. Quest’anno frequenterà il secondo anno di Gestione delle risorse a Brazzaville, presso la ESGAE, l’unica Università privata del Congo che ti permette di fare, oltre alla Licenza, anche il Dottorato.
Non è originario di Brazzaville ma di Kinshasa e per questo ha avuto dei problemi nel dover produrre tutti i documenti richiesti all’Università di Stato.

NSOUKA BIENVENU, detto Chidè, 23 anni, anche lui cresciuto al Centro, praticamente non ha famiglia fatta eccezione per una sorella che vive sola con tre figli e senza lavoro. E’ originario di Brazzaville e quest’anno frequenterà l’Università di Stato M. Ngouabi.

 

 

 

 

WAMBA MILANDOU GRATIEN, 25 anni. Da diversi anni al Centro, ma legato ai frati da molto più tempo, in quanto frequentava

la nostra parrocchia di Djiri. Si trova a dover affrontare la vita da solo nonostante abbia una famiglia per incomprensioni con i genitori e storie di violenza e alcool. Frequenterà il primo anno di Economia all’Università statale. Anche lui originario di Brazzaville, ha già conseguito una Licenza in Diritto presso una Università privata, che però non permette di accedere al Dottorato né di passare a quella di Stato. Riprende quindi Economia per fare un piano di studi che lo porterà a mettere insieme le competenze di Diritto e di Economia, con il sogno di lavorare nelle relazioni internazionali o nella diplomazia.

 

 

 

 

MAVUMBA FILS, 21 anni. Lui e suo fratello più grande sono soli al mondo: figli di profughi, sua madre fuggiva dalla guerra di Kisangani quando lui aveva tre anni, mentre il padre, militare, muore nella stessa guerra; la madre morirà in un campo profughi a Kinshasa dopo la notizia della morte del marito. Frequenterà il primo anno di Liceo. Non è originario di Brazzaville ma di Kisangani (RDC); ha vissuto al Centro dal 2004 ma ormai abita con suo fratello, che lavora presso una comunità di suore in centro città.

 

 

Puoi scaricare il progetto.

«Va’ e anche tu fa’ lo stesso» – lettera di fra Adolfo dal Congo

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«Va’ e anche tu fa’ lo stesso» (Lc 10,37).

 

Siamo vicini a fine anno ed è il tempo di fare un po’ di conti. Il centro ha le sue esigenze e prima di imbarcarsi nell’avventura di un nuovo anno bisogna vedere se siamo in grado di farlo…

Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa, per vedere se possiede abbastanza denaro per portarla a termine? (Lc 14,28).

Viviamo di Provvidenza ma questo non esclude la responsabilità. Dio non può supplire alla nostra mancanza di responsabilità.

Dovendo cercare aiuti (grazie a Dio c’è ancora tanta generosità in Italia) cominciavo a riflettere sulla situazione attuale di crisi che non fa che aumentare, e soprattutto del fenomeno migratorio che, sempre con tanta solidarietà e dignità, il nostro paese affronta.

Mi ricordo che diverse persone in Italia mi dicevano: “ma che fai lì in Congo? Vieni qui in Italia, l’Africa ce l’abbiamo qui, è qui la vera missione…”.

È vero, se consideriamo che un paese non è soltanto la sua espressione geografica ma il suo popolo, effettivamente se continuiamo di questo passo tra un po’ il popolo africano si sarà quasi interamente riversato in Europa.

Eppure il problema non è solo quello: sarebbe troppo complesso per affrontarne qui il discorso. Tra l’altro la scelta missionaria – lo sappiamo bene – non si riduce a fare del bene a qualcuno… né tantomeno al fatto di partire in un luogo lontano poiché anche quello, privo di reali motivazioni, sarebbe una fuga o semplicemente turismo. E tuttavia il “fare del bene a qualcuno” è un aspetto sostanziale della vita missionaria…

At 10,38  Gesù di Nazareth, passò facendo del bene … perché Dio era con lui.

Aiutare chi cerca rifugio è una cosa nobile, il Vangelo ce lo chiede e il papa non fa che ripetercelo… aiutare, accogliere… non entro nel merito del dibattito politico, non è questa la sede…

 

Ma non ci possiamo certo limitare a questo. Se – come è vero – per noi cristiani tutto questo risponde a una esigenza evangelica, è pur vero che il Vangelo ci dice anche qualcos’altro. In altri termini: che cosa vuol dire “fare il bene” secondo il Vangelo?

Aiutare qualcuno è anche in vista di una crescita. Non parlo di reciprocità (il bene non chiede nulla in cambio), ma di crescita.

Non ti faccio del bene perché poi tu me ne faccia, ma perché tu possa comprendere il valore del bene e diventi capace di fare altrettanto. Anche se con altri. Il bene ricevuto, in sostanza, diventa germe di responsabilità, un talento, da far crescere e fruttificare in seguito.

Altrimenti è solo assistenzialismo.

A questo riguardo, la parabola dei talenti di Mt 25,14 potrebbe essere illuminante se letta in questa chiave.

Il pericolo poi, è anche quello di una spiritualità non troppo chiara della ricerca di una santità che – alla fine – non tiene molto conto dell’altro (mi spendo per te, così io divento santo!)… e allora ci diamo alla caccia della buona azione…

Il vecchio adagio dice “non dare il pesce ma insegna a pescare”: giustissimo. È vero anche che dobbiamo vedere se l’altro ha voglia di imparare a pescare (intanto)… non sempre questo è scontato… come non è scontato che io sia in grado di insegnarglielo. Io stesso… sono in grado di pescare? Sarei in grado di fare quello che chiedo all’altro?

Sembra paradossale, ma… non è facile fare del bene.

Da quando abbiamo cominciato questa avventura, nel centro di Makabandilou, abbiamo praticamente “adottato” una trentina di ragazzi che vivono con noi (alcuni nomi cambiano ma il numero resta più o meno lo stesso). Al centro vivono, sono seguiti, formati e sostenuti per tutte le necessità che un ragazzo della loro età può avere.

Ma per noi è importante che i nostri ragazzi capiscano il valore del bene ricevuto perché siano capaci di fare altrettanto. Che non sia solo assistenzialismo.

Zaccheo è liberato dal Signore e decide di aiutare gli altri…

La suocera di Pietro è guarita da Gesù e subito dopo si mette a servire lui e gli altri discepoli…

Paolo guarisce dalla sua “cecità” (più spirituale che fisica) e si mette al servizio di Gesù…

Il fariseo capisce cosa vuol dire essere prossimo e Gesù gli dice di fare lo stesso, di diventare a sua volta prossimo di chi è in difficoltà…

Se non riusciamo a trasferire il senso di responsabilità conseguente al bene ricevuto, potremmo mai dire di aver compiuto un’azione evangelizzatrice? Di aver fatto il “bene” che Gesù faceva passando tra la gente? Un bene che rendeva l’altro capace di farlo anche lui…

Un ragazzo al centro, D., avendo visto tanti volontari che “passano da noi facendo loro del bene”, mi chiese: ma noi, potremmo anche noi fare qualcosa del genere… venire da voi per aiutarvi per esempio…?

La gloria di Dio – diceva s. Ireneo – è l’uomo vivente… l’uomo in piedi, autonomo, responsabile… se creiamo delle persone continuamente dipendenti potremmo mai dire di aver “dato gloria” a Dio?

L’albero del Vangelo di Luca (13,6) aveva avuto tante cure ma non riusciva a produrre nulla. Ebbene, non sembra che Gesù sia stato molto dolce nei suoi confronti. O peggio ancora quello di Mc 11,13. E Gesù non parla per gli alberi…

Ma dall’altro lato, ci vuole pazienza per poter vedere i frutti del proprio servizio. E non è neanche detto che personalmente noi li vedremo. Forse altri.

 

Colgo l’occasione per ringraziare ancora il centro missionario di Bologna per il sostegno costante e inoltre per averci quest’anno sostenuto interamente nelle spese scolastiche dei nostri ragazzi.

Per il momento non possiamo che far fruttificare questo bene ricevuto con la nostra preghiera per tutti coloro che ci sostengono (la preghiera è un enorme servizio), ma siamo ben coscienti che stiamo contribuendo tutti (noi e voi) a formare gli uomini del domani di questo paese. O almeno alcuni di loro…

Quanto questo resterà nella coscienza di coloro che stiamo aiutando? Solo il futuro potrà dircelo.

 

Oggi ho avuto la visita inaspettata di uno dei nostri ragazzi più grandi, C., che già da diverso tempo vive oramai per conto suo, autonomamente. Ha studiato cucina ed ora lavora come cuoco e a volte gli danno anche responsabilità di gestione in alcuni ristoranti della città.

A dire il vero, uno di quelli su cui non avrei scommesso un centesimo… eppure.

Ieri mi aveva telefonato dicendomi che sarebbe venuto stamattina a passare una giornata con noi.

È venuto, è stato con gli altri, ha mangiato con noi…

Poi, prima di andare via mi ha detto che avrebbe voluto parlarmi. A dire il vero pensavo che mi avrebbe parlato dei problemi da affrontare e che avrebbe dovuto chiedermi un aiuto economico…

Invece… invece mi ha detto che voleva ringraziarmi. “Grazie per aver fatto di me l’uomo che sono oggi. Sai, al lavoro tanta gente si congratula con me per la mia serietà, per come sono… e io non posso che riconoscere che tutto questo è il frutto di una educazione ricevuta qui: devo dirti grazie, perché mi hai fatto crescere, io non ho nessuno al mondo e non sono mai stato molto “dolce” al centro. Voi siete stati sempre la mia famiglia. Alla fine, eccomi qui, con un buon lavoro, delle buone relazioni, e chissà… sto pensando di aprire un conto in banca per metterci i miei risparmi…e poi, potrei sempre insegnare il mestiere ad uno di questi miei fratelli più piccoli…”

 

Andiamo avanti, speriamo che il futuro ci dica sempre che non abbiamo perso tempo inutilmente.

 

fr. Adolfo Marmorino

Notizie da P. Adolfo

 

Finalmente di ritorno.
Oggi pomeriggio, dopo due settimane, C. e R. sono rientrati a casa a Makabandilou.
Riassumo in breve: C. accusava forti dolori al ventre da diverso tempo e dopo controlli, cure e verifiche varie, si è scoperto che aveva dei grossi calcoli al rene sinistro (cinque per la precisione di cui uno di tre cm).
A questo punto bisognava intervenire ma a Brazzaville, per quanto abbiamo cercato, girato e – certamente – pagato, niente di fatto. Dopo tre mesi eravamo al punto di partenza. I dottori non possono operare perché mancano delle sonde. Almeno così dicono.
Ci mettono in lista di attesa. Ogni tanto ci chiamano, ci dicono che è imminente, ci fanno fare le visite con gli anestesisti, ci fanno comprare le medicine che serviranno in ospedale, ma poi… aspetta e aspetta.
Siccome la situazione peggiorava, abbiamo colto l’occasione tramite una suora che andava a Kinshasa per sapere se lì fosse stato possibile.
E così è stato. Abbiamo preso i primi accordi, scambiato alcune informazioni…
Intanto da qualche tempo, i frati di Makoua ci hanno mandato una bambina di 11 anni che aveva apparentemente gli stessi sintomi di C.
R. (il nome della bambina) ha fatto la stessa trafila di C., arrivando anche lei a un passo da quel dunque che non aveva mai seguito… allora abbiamo fatto le pratiche per tutti e due e senza portarla troppo alla lunga, alla fine entrambi sono stati operati a Kinshasa e sono felicemente rientrati oggi pomeriggio.
A entrambi hanno dovuto asportare un rene.
Tutto è comunque andato per il meglio. Adesso riposo per un mese e controllo ad Aprile.
Questo giro ci è stato possibile grazie a quanti ci hanno aiutato. E a quanti ancora ci stanno aiutando per mettere insieme le spese sostenute. È costato parecchio, ma almeno ne è valsa la pena.
Unica nota dolente: penso a quanti ancora stanno aspettando in lista d’attesa in realtà inutilmente… con patologie che poi diventeranno croniche.
Adesso lascio che i nostri amici possano dire due parole:

Ciao, mi chiamo C. e ho 16 anni. Sono in 4° (il primo anno delle nostre superiori).
Mia madre si chiama J. e mio padre C. Ho un fratellino che si chiama G. e una sorellina, E.
Mio padre e mia madre sono separati da tanto tempo e la mamma aveva deciso di lasciare il villaggio e partire con noi figli a Brazzaville dove lei ha cominciato a fare un po’ di piccolo commercio che però a un certo punto non ha più funzionato come prima per questo io e mio fratello ci siamo ritrovati per strada.
Dopo qualche mese vissuto così per strada, abbiamo incontrato l’educatore di un centro che aiuta i ragazzi di strada e dopo qualche settimana che ci ha incontrato e aiutato così dove eravamo, ci ha portati al centro.
Siamo arrivati qui nel 2009, io e mio fratello, accolti da p. Adolfo, dei frati francescani e da allora io vivo in una nuova famiglia.
L’anno successivo il padre ci ha iscritti a una scuola che abbiamo frequentato per due anni finché poi, raggiunto un certo livello, ci ha inseriti in una scuola cattolica, gestita dai frati francescani, che frequentiamo fino ad oggi.
Durante l’anno scolastico passato ho cominciato ad avere un problema che si manifestava con dei dolori frequenti alla pancia. Anche durate le vacanze questo dolore ha continuato al punto che una sera, durante la preghiera, gli altri sono usciti dalla cappella ma io sono rimasto perché non riuscivo ad alzarmi tanto forti erano i dolori. Sentivo caldo e il cuore che mi batteva forte e poi vertigini così che sono caduto per terra.
Dopodiché il padre mi ha chiamato a parte e mi ha chiesto cosa sentivo e dove avevo i dolori. Il giorno dopo mi ha portato all’ospedale e ho fatto l’ecografia dell’apparato urinario e il dottore ci ha detto che il rene sinistro aveva un problema.
Ci ha mandato in un altro ospedale da un urologo il quale mi ha chiesto di fare degli esami che hanno preso praticamente un mese.
Infine mi ha detto che soffro di calcoli renali ed erano questi che mi davano i dolori e gli altri problemi e che dovevo essere operato il più presto possibile.
Ma malgrado gli ospedali contattati e i medici e le liste d’attesa, qui a Brazzaville non abbiamo avuto molta fortuna: per più di tre mesi senza una soluzione e i dottori che dicevano che non c’erano sonde e dunque bisognava aspettare e intanto io soffrivo.
Allora il padre ha deciso che io dovevo partire per Kinshasa per fare l’intervento.
Siamo partiti una prima volta per dei controlli: ciò che il dottore di Brazzaville diceva era vero e lo hanno confermato. Così siamo rientrati, e abbiamo passato le feste di Natale a casa. Dopo le feste, ci hanno chiamato e siamo partiti il 5 gennaio. Siamo arrivati a Kinshasa alle 17, ci hanno dato una camera e l’indomani mattina abbiamo cominciato altri test. Giovedì verso le 9, mi chiamano in sala operatoria e mi dicono che cominciano subito con me, perché eravamo in due, io e una bambina che soffriva anche lei ai reni, si chiama R.
Mi hanno fatto l’anestesia e mi sono svegliato nel tardo pomeriggio senza sapere che tutto era già passato e la suora che ci ha accompagnato mi ha detto che tutto era andato bene e che mi avevano tolto i calcoli e io ero felice.
Il giorno dopo è stato il turno di R. e ci avevano già detto che le avrebbero tolto il rene destro.
Dopo una decina di giorni ci hanno tolto la sutura. L’ultimo giorno abbiamo sistemato la valigia per partire. La suora è partita nell’ufficio del primario per prendere il rapporto medico e quando è uscita e che gli altri erano già fuori, mi ha detto che mi avevano tolto anche a me il rene ma che non c’era nulla da temere perché un rene funziona come due basta solo bere molta acqua. Sono rimasto un po’ in silenzio perché pensavo tutto questo tempo che mi avessero tolto solo i calcoli. Allora il dottore mi ha spiegato che il rene non funzionava più perché questa malattia me la portavo dietro da tanto tempo anche se non lo sapevo e i calcoli con il tempo hanno rovinato il rene.
Ero praticamente mezzo morto ma grazie a voi oggi mi sento bene e in forma.
Io non avrei mai avuto i mezzi per fare questa operazione ma grazie a voi ho potuto essere operato. Grazie perché so che siete tante persone che ci aiutate anche se non vi conosciamo. Le nostre stesse famiglie non avrebbero mai potuto aiutarci in questo modo.
È un grande segno d’amore, non credo che lo dimenticherò mai. Come non ho nulla per ricompensarvi, sappiate che vi porterò sempre nella mia preghiera.
Quando ero per strada vivevo una vita senza scopo: voi me lo avete dato. Oggi questo scopo è la scuola e la mia formazione.
Grazie infinitamente.
C.mandela(1)

Lettera di Novembre da parte di P. Adolfo

 

In casa abbiamo un ragazzo di 18 anni, D., che – pur avendo una famiglia – è costretto a vivere lontano da loro. Per vari motivi (non è il primo né l’unico).

Lui è sempre molto taciturno, un po’ schivo e timido, anche se sa mostrarsi molto “di compagnia” quando facciamo le serate insieme.

Un giorno ha dovuto sottomettersi a un intervento chirurgico (un’ernia inguinale) e il dottore che lo ha operato lo ha ricevuto al mattino per la diagnosi e ce lo ha rimandato con un educatore nel primo pomeriggio in taxi già operato (è rientrato in camera sulle sue gambe).

Ma siccome era ancora un po’ sotto anestesia, non credo che riuscisse in quel momento – fra dolore e rintontimento – a gestire ciò che diceva e probabilmente, senza i tabù dello stato di veglia piena, diceva in fondo ciò che pensava.

Mentre era a letto e io gli ero accanto, mi guarda e mi dice: “Perché i miei genitori non mi vogliono bene?” “perché quando passo da loro nessuno mi chiede mai: come stai?”

Da parte mia cercavo di non fargli pesare questo dicendogli che la sua famiglia è molto povera e non riesce a gestire tanti altri figli più piccoli di lui, per cui non è mancanza di amore ma solo probabilmente mancanza di tempo… lui si limitava a guardarmi senza dire niente. Probabilmente capiva che neanch’io credevo a ciò che stavo dicendo rinunciando quindi a continuare a porre quelle domande che diventavano per me imbarazzanti.

 

E la lotta quotidiana – soprattutto in casi del genere – è proprio questa: cercare di essere padre senza sostituirsi alla loro famiglia d’origine, ma dare comunque un sostegno – una forma comunque di famiglia – a chi di fatto se ne trova privato.

E poi essere padre. Senza paternalismi. Credere nella capacità di ogni ragazzo di progettare e investire sulla sua vita ma al tempo stesso accompagnarlo per evitare di farlo cadere in sentieri d’illusione.

Compito non facile anzi decisamente difficile. È più facile pensare al loro posto, progettare al loro posto… ma anche questa strada si può rivelare un sentiero d’illusione. Pensare di poter dire “io so cosa ci vuole per te, io so cosa è bene per te”… manifesta già la nostra insicurezza nei confronti delle sue capacità, dei suoi sogni.

Ma se è vero che si dovrebbe essere padri senza paternalismi, è anche vero che bisogna far crescere nei figli la coscienza di essere figli e non solo clienti.

In sostanza, i doveri dei genitori non sono gli unici elementi dell’insieme “doveri famigliari”. Anche i figli hanno dei doveri. Non volerli considerare diventa fonte di insuccesso nella loro crescita al pari di un paternalismo fuori posto.

L’ascolto è il mezzo forse migliore per dare e avere. Avere la capacità di accogliere il momento favorevole per fare un passo che non sia solo l’iniziativa di un genitore (potrebbe in qualche modo essere rifiutata).

Adesso D. si è rimesso, sta bene. Ultimamente mi ha chiesto se sono disponibile a fargli delle ripetizioni di inglese. Ho accettato. Ripensandoci mi rendo conto che lui ha faticato non poco per chiedermi qualcosa. Non so alla fine se è dell’inglese che ha bisogno oppure semplicemente di un po’ d’attenzione personale. Ma sono contento che stia imparando a chiedere. L’inglese sarà l’occasione per lui di imparare qualcosa che lui stesso ama, e per me, l’occasione di considerarlo un po’ di più senza che la cosa sia stata proposta (o imposta) da me.

La debolezza dell’uomo ha sempre bisogno della Misericordia di Dio

La lettera di Agosto di fr. Adolfo ci parla del perdono, del suo impegno con i ragazzi del centro …

Il perdono suppone il fatto di riconoscere il male commesso e la risoluzione ferma di non farlo più. Riconoscere con dolore di aver sbagliato contro la legge di Dio produce il senso di peccato.
Ma se riconosco il male commesso per altre ragioni meno nobili quali ad esempio, ho rovinato la bella immagine che avevo di me e che gli altri avevano di me oppure la vergogna o la paura di dover subire le conseguenze del mio atto, della trasgressione senza che in realtà ne capisca il valore… là siamo nel senso di colpa che non dà frutti perché è ancora qualcosa che mi attira nella spirale dell’egoismo.
Alla fine lo faccio per me.
L’altro (o l’Altro) non ne trae alcuna gloria.
Inoltre il senso di colpa è un fatto soggettivo nel senso che mi fa sentire “in errore” solo per i mali che io riconosco come tali e non per tutto ciò che è male per se stesso (contrario alle leggi di Dio).

Per questo il senso di colpa è frustrante (non sono riuscito a mantenere la bella immagine che avevo e che davo di me) e questo mi rode, mi consuma, mi fa cercare scuse, vie alternative, nascoste… mentre il senso di peccato è liberante: mi riconosco creatura, bisognoso di aiuto, debole, dunque mi conduce alla verità, e la verità mi fa libero (Gv 8,32).

Chiedere dunque perdono solo perché sono stato scoperto o perché conviene per evitare il peggio (pensiamo al patteggiamento nei processi), intanto non ci fa fare una bella figura (se è l’immagine che ci sta a cuore) e inoltre non conduce al perdono.
Gli elementi importanti sono dunque:
1. Il fatto di riconoscere con dolore di aver fatto qualcosa di oggettivamente sbagliato;
2. La risoluzione ferma di non farlo più.
Bene, se già il primo comporta la differenza tra peccato e colpa, il secondo elemento è ancora più intrigante. Consideriamo in esso (almeno) due casi possibili:
1° : Nel caso in cui ci presentiamo davanti a Dio per chiedere perdono, almeno in coscienza, io so (o almeno dovrei sapere) che il perdono è condizionato dal fatto che realmente non voglio più peccare. Poi, se arriva che pecco ancora, pazienza, ricominciamo, ma a condizione che non ci sia la malizia, se no anche questa diventa qualcosa da confessare (es.: sapevo che sarei ricaduto in quell’errore e non ho fatto niente per evitarlo tanto sapevo che poi sarei stato perdonato).
2° : Ma nel caso in cui io “ho fatto il male”, “ho agito male”, ecc… contro un fratello, il discorso della coscienza diventa più complicato.
Cioè, se non considero il fatto di dover fare i conti con Dio, ma solo con il fratello, spesso succede che chiedo perdono solo quando sono stato scoperto o quando temo che la cosa sarà risaputa o se temo le conseguenze del mio atto. E anche se in cuor mio so che lo rifarò, intanto arrivo perfino a giudicare l’altro come “duro di cuore” se mi rifiuta il perdono.

È quello che succede con i ragazzi al centro: ogni tanto, dopo l’ennesima piccola (grande) “marachella” – ben inteso, oramai scoperta – , ecco la processione alla ricerca del perdono (in genere mandano i più piccoli in avanscoperta o davanti alla processione). Ma a cosa serve?
Il settanta volte sette di evangelica memoria funziona ed è applicabile ma a condizione che ci sia veramente “senso di peccato” e volontà di non fare più quel male. Ma spesso, niente di tutto ciò.
La riprova è che “siamo alle solite”.
Fare finta di niente e dare un “grande perdono” come una specie di “amnistia”, almeno per un verso, non è educativo ma fuorviante perché produce nel cuore di chi lo riceve la certezza che si può sempre rifare, tanto poi c’è il condono.
Cioè non si educa alla responsabilità. Ogni azione causa delle conseguenze che devo imparare a mettere in conto e ad accettare almeno come eventuali e questo è responsabilità.
Mi veniva in mente quello che un frate mi disse circa il sacramento della penitenza nella chiesa greca ortodossa: trovandosi in vacanza in Grecia e mancando sul posto di preti cattolici, il frate andò a confessarsi dal pope dicendo i suoi peccati. Alla fine ne seguì l’assoluzione. Ma ripresentandosi dopo un mese con lo stesso peccato fu mandato via con una frase del tipo: dunque non ti sei ancora convertito? E allora che sei venuto a fare?
Bene e male. Bene perché certamente non si può prendere in giro il Signore. Male perché la debolezza umana ha sempre bisogno della misericordia di Dio. Purché tutto ciò non sia la scusa per continuare a fare il male (cfr 1Pt 2,16).
A proposito dei ragazzi del centro: be’ tra il si e il no c’è sempre il ma. Finché c’è vita c’è speranza. Un no secco e per sempre diventa una condanna eterna e non produrrà cambiamenti. Un si senza condizioni diventa un’offesa alla dignità umana e inviterà a continuare tanto…. Un ma accompagnato da una sanzione salutare che faccia riflettere (con tanto tatto per evitare che sia letta come il prezzo da pagare che alla fine potrebbe creare un listino nelle teste dei ragazzi), sembra ancora la via migliore.

Il grande santo dei giovani Giuseppe Calasanzio, diceva che per far crescere bene gli adolescenti ci vuole “amore”, “pazienza” e “umiltà profonda”. Sembrano parole di uso comune: ci metti tutto e pensi di aver detto tutto (senza cogliere il senso profondo). Ma in realtà, se pensiamo già
• all’amore richiesto, vuol dire desiderio per il loro bene, trasporto, voglia intensa di donarsi e donare tutto ciò che si è e che si ha per loro, affinché possano essere felici e responsabili (o meglio: felici perché responsabili). Dunque un amore che richiede anche fermezza, che ti rende anche impopolare e a volte considerato come un “duro di cuore”.
• alla pazienza, che ti impone di non scoraggiarti mai davanti ai continui insuccessi, davanti ai conti che non tornano, che ti chiede di non scaricare su di loro le tue frustrazione conseguenti…
• l’umiltà (tra l’altro profonda) che è la terza tra le doti richieste al buon educatore ti fa rimettere sempre in discussione. Anche quando, senza adirarti, vorresti semplicemente prendere le distanze, sapendo che hai ragione… bene anche lì, è richiesto un viso sereno, gioioso, accogliente, capace di ingoiare il boccone, caricarsi del fallimento, dell’insuccesso che scopri dietro alle cose che non vanno…

…e continuare sapendo che Qualcun Altro ha ancora più Amore, Pazienza e un Umiltà infinitamente più Profonda nei tuoi riguardi.

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Lettera dal Congo di Fr. Adolfo

Amare tutti senza amare nessuno in particolare…
Ecco – in sintesi – quello che ci dicevano negli ultimi giorni della preparazione missionaria a Bruxelles, prima di partire per la destinazione prevista.
E quando ce lo dicevano sembrava tutto così logico… come dire che due più due fa quattro.
Così logico ed evangelico andare per il mondo con il cuore pieno solo di Dio, curando i malati, guarendo i lebbrosi… senza legare il cuore in nessun luogo particolare.
Ma poi? Potrei dire davvero di aver amato? O non sarei stato forse un semplice funzionario del sacro, un uomo che ha rinunciato ad avere un cuore per essere solo un esecutore (più o meno) perfetto, fosse anche della Parola di Dio?
E come per tutte le altre cose, un conto è preparare il piano a tavolino, altro è fare i conti con la realtà, vissuta e condivisa 24 ore su 24 con dei fratelli e delle sorelle che il Signore ti ha dato.
Quando sono arrivato qui avevo in mente tutti quegli insegnamenti, soprattutto quelli legati all’affettività: attento a questo, attento a quello, non fare questo evita quello…
Ma quando vivi per tanti anni con delle persone, soprattutto con i più poveri, che il Signore stesso ha messo sul tuo sentiero, come fai ad amare in modo asettico? Come non affezionarsi a chi ti fa partecipe della sua vita, farli partecipi della tua, progettare insieme un futuro, soffrire insieme per i dispiaceri, gioire insieme per le buone riuscite, piangere insieme per le sconfitte?
Quando incontri una persona, questa comincia a far parte della tua vita, non può essere solo l’oggetto della tua carità o della tua azione evangelizzatrice. Anche lei è un soggetto, che è di fronte a te e con la quale stabilisci delle relazioni, anche profonde e personali. E anche lei è portatrice di una parola di Dio per te.
Già perché la Parola di Dio non è solo quella che leggiamo nella Bibbia. Alla lunga quella rischia di diventare archeologia se ci limitiamo alla lettera.
Ma se la “lettera” è compresa nello “Spirito” allora vediamo che dal principio Dio dice e fa.
Questo vuol dire che ciò che Dio ha fatto (tutto ciò che esiste) è una Parola di Dio, qualcosa che prima ancora di essere “creata” è stata “detta” da Dio.
La creazione è “il modo di parlare di Dio”. Ed è questa realtà che ci circonda – vivente o no, secondo i nostri canoni – la grande Parola di Dio. E se lo è nelle realtà (che noi consideriamo) inanimate (il cielo, le stelle, la terra…) così come in quelle dotate di vita (i fiori, gli alberi, gli animali…), quanto a maggior ragione per quella realtà che è la persona umana.
Questa gente, questa persona in particolare, questo giovane che è cresciuto con noi nel centro, questa vecchietta che vive da sola nel nostro quartiere… tutto ciò è una Parola che Dio oggi rivolge a me, che ne prenda coscienza o no.
Ma nel momento in cui me ne rendo conto, questa Parola mi chiama a una risposta non meno esigente di quella che posso leggere nei Vangeli. E come quella, anche questa mi pone il problema di un ascolto, di una interpretazione, di una contemplazione, di un’adorazione e infine di un’obbedienza. Ed ecco che allora la richiesta di chi mi è di fronte non è più la possibilità o no per me di fare la “carità” ma l’obbligo di essere fedele alla Parola di Dio.
Certamente anche qui ci vuole discernimento (dicevamo prima interpretazione), ma alla fine, in coscienza, devo con onestà capirne il senso e reagire.
Ed è così che l’amore diventa la risposta, ma sempre e comunque una risposta personale. Da persona a persona poiché la relazione si crea tra persone. E non posso più amare e spendere la vita per “la gente”, “i poveri”, o tutte le altre “categorie” che posso immaginare o mettere in preventivo negli anni di formazione, perché Dio non mi mette davanti delle categorie ma delle persone concrete … il che vuol dire che devo anche mettere in conto che altre persone probabilmente non le conoscerò, non le amerò… di altre persone non mi occuperò… non perché non ne abbia voglia, semplicemente perché non le ho incrociate, semplicemente perché il Signore non mi ha messo sul loro sentiero né messo loro sul mio. Fa male non poter fare qualcosa per tutti, ma se da una parte è segno del nostro limite (da accettare con buona pace perché io non sono Dio), dall’altro è anche rivelazione del nostro dovere: dovere di rispondere alla Parola che ci è data…
C’ erano molte vedove in Israele al tempo del profeta Elia, quando per tre anni e sei mesi non cadde alcuna goccia di pioggia ed una grande carestia dilagò per tutto il paese; a nessuna di loro però fu mandato il profeta Elia, ma solo ad una vedova di Zarepta, nella regione di Sidone. E c’ erano molti lebbrosi in Israele ai tempi del profeta Eliseo; eppure a nessuno di loro fu dato il dono della guarigione, ma solo a Naaman, il Siro» Lc 4:25-27.
Non è una questione di preferenza: il Signore mette sul nostro cammino dei fratelli e delle sorelle da amare. Potremmo fare tutti i grandi progetti per salvare l’umanità, e sarebbe ottimo farlo, ma ciò che rimarrà di noi saranno le relazioni personali e vere che avremo intessuto e la maniera con cui le avremo gestite.DSC_2294

Lettera di Agosto

Rieccoci dopo questa piccola pausa estiva che ci ha visti di fronte a vari avvenimenti soprattutto politici che hanno scosso un po’ il paese. Adesso sembra che tutto sia più o meno tornato alla normalità. Anche i nostri ragazzi dopo le fatiche scolastiche per la maggior parte di loro vivono un periodo di riposo che ci permette di riorganizzarci e rilanciare il nuovo anno di attività qui nel centro.
Il nostro centro diventa sempre di più “polivalente”, visto che da quest’anno accoglie anche il noviziato della nostra entità ed è anche questa una cosa interessante. Formarsi al chiuso non aiuta certo ad affrontare le sfide della vita, soprattutto per chi si consacra al servizio del Signore e dei fratelli e allora per i nostri novizi questa formazione “inserita” in un contesto di giovani cosiddetti “ di strada” diventa un modo per stare con il Signore senza perdere di vista il grido dei poveri.
Dalla parte dei ragazzi diventa anche un modo per interrogarsi sul senso della vita: hanno conosciuto i nostri postulanti ed ora li vedono vestiti da frati: qualcuno comincia ad avere il desiderio di seguirli in questa scelta: certo, bisogna vedere le motivazioni, fare un percorso che è comunque personale, scendere in profondità… ma è già un elemento nuovo perché i nostri ragazzi possano lasciarsi evangelizzare: senza dire niente.
In effetti tante volte mi rendo conto che quando parliamo del Signore alla gente, anche durante le omelie in parrocchia, rischiamo di dire tante cose dando delle risposte già confezionate a delle domande che nessuno ha posto e che per questo non incidono nella vita della gente. Ma quando è la stessa gente, spinta dalla nostra vita, a porre delle domande, a chiederci il perché delle nostre scelte, ecco allora che la risposta – che è annuncio del Vangelo – diventa incisiva perché risposta a una domanda concreta di qualcuno.
E allora andiamo avanti con questa nostra vita, una vita che se vissuta in modo serio, autentico, fino in fondo, ha ancora qualcosa da dire e che rivela, dalle domande o dalle semplici curiosità, un desiderio di Dio che è sempre presente nel cuore dell’uomo. Basta solo farlo venire alla luce, trovare il modo di provocarlo.
Oggi durante la Messa la liturgia ci metteva davanti la pagina del Vangelo in cui Gesù moltiplica i pani. E Gesù stesso dice alla gente che “lo hanno seguito solo perché hanno mangiato e si sono saziati”. E non è un rimprovero. È una verità: noi seguiamo Gesù perché mangiamo e ci saziamo della sua Parola e del suo Corpo. Pensiamo a quanta Parola riceviamo ogni giorni e a quante Messe partecipiamo. È la sua presenza in noi che ci permette di seguirlo, che ci dà il desiderio di seguirlo.
E se questo diventa un modo per dare a questa nuova generazione un po’ di desiderio di cielo, verrebbe anche la voglia di abbondare.
Certo l’annuncio attraverso la testimonianza è una cosa bella, ma quanta responsabilità: ci inchioda perché la gente (o i ragazzi) non guarda solo il bell’abito o i momenti di preghiera che facciamo: soprattutto i ragazzi sono molto attenti alle nostre infedeltà. Sanno che la nostra vocazione esige un livello molto alto e per questo facilmente colgono le nostre mediocrità.
Ma questo ancora una volta chiede impegno e serietà. A volte nascondiamo, copriamo, perdoniamo (?) con giustificazioni falsamente religiose e moralistiche (“aver cura del fratello…”) ora che (papa Francesco insegna) ci vuole il coraggio di strappare per rifare, demolire per ricostruire, resettare per reinstallare, senza compromessi che come al solito non serviranno a nessuno.

fra Adolfo

Lettera di maggio dal Congo

Vi invitiamo calorosamente a leggere questa lettera che fra Adolfo ci ha scritto…

Volti 114In questi giorni la cosa che è sulla bocca di tutti: una operazione di polizia che sta mettendo fuori dal paese tutti gli stranieri irregolari, in particolare quelli che vengono dall’altro Congo. E per quanto alla televisione i politici dicano che non c’è niente in particolare contro i congolesi dell’altra parte del fiume, in realtà le cose vanno in questo senso.
Anche chi è in regola preferisce lasciare il paese e chi cerca di mettersi in regola con i documenti deve subire umiliazioni su umiliazioni da parte degli agenti dell’immigrazione: “perché siete qui? Siete troppi, non vedete che stiamo mandando via quelli come voi…” “cosa cercate? Il vostro documento? Tornate domani.” E di domani in domani, in un interminabile vai e vieni. Noi abbiamo per alcuni ragazzi una richiesta di regolarizzazione accettata e pagata (cara) introdotta da novembre dell’anno scorso non ancora rilasciata. Qualcuno dell’ufficio ci ha anche detto che quei dossier non ci sono. Malgrado la ricevuta di pagamento.

Come al solito sono le politiche dei grandi, gli interessi nascosti di chi muove i fili dei burattini, mentre chi ne fa le spese, senza saperne nulla, sono, come al solito i poveri. E i grandi spingono la gente a fare una guerra non sua.

Questi movimenti non fanno che far crescere il clima di ostilità tra la gente dei due paesi. C’è la caccia allo zairois (= colui che viene dall’altro Congo), e chi ieri era il tuo vicino con il quale condividevi spesso anche i pasti, oggi si vede tradito e denunciato alla polizia come irregolare.
Un tipo vende il pane al mercato e accanto a lui un altro fa lo stesso mestiere. Ma quest’ultimo è kinois (= zairois). Tutto bene fino a ieri, poi, geloso del fatto che l’altro vende più di lui (guadagna forse un euro più di lui in tutta la giornata), lo denuncia alla polizia che subito interviene e lo arresta. Sarà imbarcato subito su un battello stracolmo e mandato dall’altra parte del fiume. Per andare dove? Da anni questa gente vive qui. Dall’altra parte non avrà una casa né un lavoro. E in più sua moglie e i suoi figli stasera aspetteranno molto a lungo il rientro di colui che avrebbe dovuto garantire loro il pane quotidiano.

Anche tante suore sono in difficoltà perché – venendo dall’altra parte – non erano pronte per affrontare la situazione e regolarizzare la loro posizione.

Qualcuno mi ha detto: questa storia fa diventare le persone cattive. Gli ho risposto: le difficoltà non fanno che manifestare il cuore della gente. Non lo diventi cattivo. Lo eri già. Se il tuo cuore è aperto al bene, saprà far trionfare il bene al di sopra dei tuoi interessi personali. Se no, non farà che rivelare ciò che c’è sempre stato.

Questa vicenda sta rivelando il male di tanti:

In pensieri e parole: ciò che di male si dice, ciò che di male si vomita contro colui che fino a ieri era tuo fratello. Tuo fratello, colui del quale domani Dio ti chiederà “dov’è”? La domanda di Dio a Caino: “dov’è tuo fratello?” rimbalza qui più forte che mai visto che i due paesi sono rappresentati dalle due capitali le più vicine tra loro al mondo. Due paesi fratelli dunque…
In opere e omissioni: gli sciacalli che profittano dei beni di coloro che devono partire. La violenza gratuita che non conosce pena di chi si scaglia contro gli indifesi per derubarli, violentarli, abusarne in ogni modo, tanto chi garantisce i loro diritti? Ma anche i silenzi di chi avrebbe potuto (e dovuto) intervenire e invece ha preferito una comoda e neutra posizione di silenzio: dimenticando forse che agli occhi di Dio non ci sono posizioni neutre: o sei caldo o sei freddo (o fai il bene o fai il male), se sei tiepido, Dio ti vomita (Ap 3,15-16). Paradossalmente l’essere freddo agli occhi di Dio è preferibile all’essere tiepido. Meglio – paradossalmente – fare il male che essere ignavi. Chi fa il male ha quanto meno fatto una scelta, ha manifestato una capacità di agire, di prendere decisioni da persona matura. Poi, può anche arrivare che ti penti e Dio ti colma della sua grazia. Ma coloro che non hanno personalità, che non prendono decisioni, che restano sempre nell’anonimato per non esporsi… che non vogliono assumersi le responsabilità delle proprie azioni, magari lasciandole cadere su altri… quelli che vogliono sempre “cadere in piedi”… Dio non li prende neanche in considerazione. Nell’inferno di Dante, che non è certamente la foto dell’aldilà ma ci aiuta a comprendere alcune cose, per gli ignavi non c’è neanche l’inferno propriamente detto. Ma il paradiso trabocca di peccatori perdonati.

Non siamo qui per fare politica né per denunciare: noi siamo qui per annunciare un modo nuovo di vivere. E di ricordarlo soprattutto ai cristiani. Ciò che mi preoccupa infatti non è ciò che lo stato fa (è sovrano e ne ha il diritto), ma il fatto che i cristiani, che dovrebbero mostrare questo nuovo modo di vivere (e all’occorrenza, di morire) non si muovano. Agli occhi di tanti cristiani è quasi normale ciò che succede mentre le grandi organizzazioni denunciano già crimini contro l’umanità… ed è ai cristiani che noi ci rivolgiamo come pastori di un gregge che a volte si perde alla ricerca di ovili apparentemente migliori.
Peccato di omissione: anche un presunto “far niente” in realtà è male. E chi fa il male deve sapere che lui stesso ne sarà la vittima. Giuda ha tradito il Bene e ha perso la vita in modo miserabile.
Come diceva p. R. Cantalamessa nell’omelia del venerdì santo: “Il dio denaro (il diavolo) si incarica lui stesso di punire i suoi adoratori”.
Non si può scendere a patti con il male. Il male non conosce patti. Non si può essere amici del male: l’amicizia è estranea al male, è solo un’illusione. Prima o poi, ti brucia.

 

fra Adolfo